Todo ModoLe origini del «Whatever it takes» di Mario Draghi e il metodo Rozzi

I principi che ispirarono la locuzione che salvò l’Europa sono da ricercare nella tradizione educativa dell’istituto cattolico Massimo di Roma più che negli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola

Lapresse

Affascinante e degna d’attenzione la sempre più diffusa rilettura che negli ultimi giorni si fa del proverbiale Whatever it takes quale traduzione e attuazione del Todo modo ignaziano da parte del presidente del Consiglio. Ma la si può definire anche calzante?

Era il 26 luglio 2012 quando Draghi, da meno di un anno alla guida della Bce, pronunciò a Londra il celebre Whatever it takes cambiando non solo la storia dell’Eurozona ma trasformando l’Europa nella sua Europa. L’Europa, appunto, di Mario Draghi, quella del sostegno incondizionato all’euro da perseguire «costi quel che costi». In breve tempo Whatever it takes è divenuto modo di dire emblematico della salvezza dell’Eurozona e a tal punto paradigmatico che la Treccani ha dedicato a tale espressione una specifica scheda tra i neologismi, rilevandone altresì il ruolo di marcatore linguistico-temporale.

Il Todo modo di sant’Ignazio di Loyola è divenuto parimenti emblematico da quando nel ’74 Leonardo Sciascia lo scelse come titolo del più oracolare dei suoi romanzi ed Elio Petri, nel ’76, per la più oracolare delle sue pellicole, liberamente ispirata proprio all’opera dell’intellettuale di Racalmuto. Denuncia degli intrighi di potere tra democristiani, l’uno e l’altra furono il solenne de profundis intonato anzitempo sul feretro della Balena bianca, la cui rovina irreparabile Sciascia e Petri annunciarono con occhi da veggente.

Senz’ombra di dubbio l’espressione ignaziana Todo modo è fondante per la trama del romanzo e di conseguenza del film quale esemplificazione dei costumi corrotti della classe politica e del machiavellismo di una Chiesa (simboleggiata nel predicatore di ritiri, il mefistofelico don Gaetano) che manovra “con ogni mezzo” religione e classe dirigente per i propri scopi. Sciascia la lesse con un voluto senso di ambiguità e allegoria, che l’Einaudi tradusse sul risvolto di copertina della prima edizione di Todo modo con la nota: «Secondo Ignazio di Loyola il miglior modo per adeguarsi alla volontà divina sono gli esercizi spirituali: todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina».

Sganciata però dal contesto del romanzo e ripresa oggi pedissequamente secondo la lezione einaudiana (senza alcuna verifica diretta del testo originario) per avallare una traduzione tout court del Toto modo di Ignazio nel Whatever it takes di Draghi, la citazione appare non solo approssimativa ma per nulla rispondente al pensiero del fondatore della Compagnia.

La 1° annotazione degli Esercizi spirituali, da cui essa è tratta, recita infatti: «La primera annotación es, que por este nombre, exercicios spirituales, se entiende todo modo de examinar la consciencia, de meditar, de contemplar, de orar vocal y mental, y de otras spirituales operaciones, según que adelante se dirá. Porque así como el pasear, caminar y correr son exercicios corporales; por la mesma manera, todo modo de preparar y disponer el ánima para quitar de sí todas las afecciones desordenadas y, después de quitadas, para buscar y hallar la voluntad divina en la disposición de su vida para la salud del ánima, se llaman exercicios spirituales».

Vale a dire, «con il termine di esercizi spirituali si intende ogni forma di esame di coscienza, di meditazione, di contemplazione, di preghiera vocale e mentale, e di altre attività spirituali, come si dirà più avanti. Infatti, come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell’organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell’anima». Il che non significa affatto, come già rilevò Ferdinando Castelli nel 1975 su La Civiltà Cattolica, «che la volontà divina vada realizzata con ogni mezzo».

Editi per la prima volta in lingua latina nel 1548 e raccomandati in una da Paolo III col breve Pastoralis officii – primo di una lunga serie di pronunciamenti pontifici a sostegno –, gli “Esercizi spirituali” con l’“Autobiografia”, le “Costituzioni” e altri scritti del fondatore della Compagnia costituirono la base della Ratio Studiorum, che ha codificato i principi pedagogici dei gesuiti. È dunque alla tradizione educativa ignaziana che va forse ricondotto, se proprio lo si vuol fare, il Whatever it takes draghiano e non alla cinica spregiudicatezza di un Todo modo altro rispetto alla genuina mens dell’ex cavaliere d’arme spagnolo.

Una chiave di lettura in tal senso l’ha offerta, d’altra parte, lo stesso Mario Draghi già nel 2010. Nel corso di una videointervista, rilasciata a Radio Vaticana per il 50° anniversario dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Massimo all’Eur e ricircolata sui media negli ultimi giorni, l’allora governatore della Banca d’Italia, già allievo della prestigiosa scuola gesuita dalla IV° elementare al III° liceo classico, così osservava: «Per me è molto difficile capire qual è il segreto dell’educazione dei gesuiti così com’è stato trasmesso da sant’Ignazio. Quello che posso dire è come ricordo quest’educazione: un’educazione fatta di un insegnamento di qualità eccellente, che si accompagnava all’insegnamento della religione, anch’esso fatto con la stessa serietà, con la stessa attenzione di quello tradizionale. Quindi, standard di eccellenza ma insieme un messaggio morale, che pervadeva un po’ tutta la giornata a scuola. Messaggio che le cose andavano fatte al meglio delle proprie possibilità e che l’onestà era importante. Ma poi, soprattutto, tutti noi eravamo speciali in qualche modo. Non tanto perché andavamo al Massimo ma perché speciali come persone umane. Tutti noi avevamo un compito nella vita: un compito che poi il futuro, la fede, la ragione, la cultura ci avrebbero rivelato».

Il tema centrale delle «cose fatte al meglio delle proprie possibilità» era stato poco prima illustrato da Draghi in “Per compiere al meglio il proprio dovere”, commosso necrologio di padre Franco Rozzi, suo storico preside di liceo e docente di storia e filosofia al Massimo, che aveva scritto per L’Osservatore Romano dell’8 febbraio 2010. «La responsabilità di compiere al meglio il proprio dovere – si legge – non è solo individuale ma sociale, non è solo terrena ma spirituale».

Di Franco Rozzi, allievo dell’illustre grecista Lorenzo Rocci, si è parlato negli scorsi anni anche come padre di uno specifico metodo d’insegnamento basato sulla concisione verbale senza la quale non si danno precisione e rigore logico. Un inveramento pratico del passo dei Proverbi: «In multiloquio non deerit peccatum» (Nel molto parlare non manca la colpa, ndr) e, ancor più, della massima ricavata da un passo dell’epistolario di Plinio il Giovane: «Non multum sed multa», giacché a contare è il saper molto e non molte cose.

L’altro aspetto di tale “metodo”, proprio, in realtà, della tradizione pedagogica ignaziana ed esplicitato nel momento esperienziale, è quello che nella videointervista è indicato come attenzione ai singoli, «speciali perché persone umane». A ragione dunque Antonio Padellaro, anche lui ex alunno del Massimo, poteva affermare anni fa: «Continuo a riconoscermi dopo tanti anni nel “metodo Rozzi” che consiste nell’unico valore che mi sentirei di raccomandare a chiunque, cioè il rispetto della persona». È forse questo il vero e profondo valore cui Draghi si è sempre ispirato e cui, è dato pensare, s’ispirerà ancora.

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