Oltre il fordismoPer sviluppare l’economia della conoscenza bisogna far funzionare meglio lo stato sociale

Il successo dei partiti sovranisti è dovuto in gran parte alla delusione dei tanti lavoratori che non riescono a sopravvivere alla dinamicità del nuovo mondo globalizzato. Per questo motivo i governi devono far sì che il sistema sanitario e scolastico siano sempre più accessibili a coloro che hanno e avranno un basso redditto e che non saranno capaci sempre di reinventarsi. O potrebbero essere puniti alle elezioni

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La liberalizzazione, la privatizzazione, e l’intensificazione della concorrenza in un’economia divenuta globale – dei fenomeni manifestatisi in campo reale e teorizzati e resi legittimi dal pensiero neo liberista – hanno generato una maggiore diseguaglianza nei Paesi democratici di capitalismo avanzato. 

Anche nel programma dei partiti che non sono populisti la diseguaglianza da ridurre è uno dei punti più importanti. La riduzione della diseguaglianza non la si può però raggiungere con il ritorno dell’economia  detta fordista – quella delle grandi concentrazioni operaie – il cui apogeo si è avuto fra la fine della Seconda Guerra mondiale e gli anni 70. Con quest’economia si aveva un addensamento dei redditi entro il ceto medio. I redditi dei lavoratori qualificati e dei lavoratori non qualificati differivano poco. Con l’economia che oggi sta prevalendo, quella detta della conoscenza, sono premiati i lavoratori molto e mediamente qualificati, con gli altri che sono spesso diventati dei precari. Ed ecco che i redditi si divaricano. Queste mutazioni epocali non nascono dal pensiero neo – liberista ma dai processi storici reale. L’economia della conoscenza nasce dalla tecnologia informatica e porta a delle modeste aggregazioni d’impresa. L’economia fordista nasceva dalla rivoluzione dell’elettricità, della chimica, del motore a scoppio, e si materializzava nei giganteschi agglomerati d’impresa.

Nell’economia della conoscenza le retribuzioni sono elevate nella fascia alta dell’occupazione. Una quota dei maggiori redditi di fascia alta si riversa attraverso le imposte e lo stato sociale soprattutto nella parte superiore fascia media. La fascia media non però è attratta dal riversare parte dei propri redditi verso la fascia bassa. La quale fascia bassa scivola ormai da anni verso i lavori precari. Si ha una prima divisione tra l’economia della conoscenza che ha un’occupazione qualificata, ben retribuita, nonché radicata spazialmente, ma che ha anche dei mercati del lavoro a bassa produttività che non possono distribuire altro se non un reddito modesto. Sorge una seconda divisione, oltre a quella fra le diverse fasce che vivono nelle metropoli, una divisione che separa le città di successo dalle piccole città e dalle aree rurali. In breve, la provincia. Tutti questi fenomeni sono visibili nei Paesi democratici di capitalismo avanzato. Non per caso il Populismo non raccoglie i maggiori consensi nelle città dinamiche, ma da altre parti.

Esiste un modo grazie al quale l’economia della conoscenza possa continuare a svilupparsi senza generare tensioni tali da mettere in discussione l’Ordine Liberale? Proviamo a immaginarlo. Prima, una premessa.

Quanto esposto finora può sembrare un discorso astratto, ma le vicende ultime dell’Italia, quelle legate alle riforme che traggono alimento dai fondi europei e portati avanti dal governo multi-partito di Mario Draghi, li fanno sembrare, se non concreti, almeno attuali. Ci sono dei sommovimenti che fanno pensare che si voglia portare avanti – usando come leva i fondi europei – l’economia della conoscenza. I sommovimenti a favore della forzatura verso l’economia della conoscenza sono la minor propensione populista del Partito democratico, il giorgettismo nella Lega, il brunettismo in Forza Italia.

Torniamo allo sviluppo dell’economia della conoscenza. Nel corso del tempo si sono imposte le forze politiche in grado di spingere lo Stato a perseguire l’innovazione. Sembra strano, se è vero che il mantenimento delle condizioni tecnologiche sembra essere preferito dalle imprese esistenti, dai lavoratori, e dagli elettori in generale. Eppure non accade, almeno non sempre. Il capitalismo della conoscenza è ad alta intensità di manodopera qualificata. Poiché la cooperazione di questa forza lavoro è importante, i salari allineano l’interesse del lavoro qualificato con il successo del capitalismo avanzato. Ciò non implica il sostegno a un particolare partito, ma piuttosto richiede che vi siano dei partiti eleggibili che abbiano una reputazione di una gestione efficace dell’economia, che sta transitando da quella fordista verso quella della conoscenza.

Nel Bel Paese si hanno due progetti, quello della redistribuzione per equità e quello per opportunità. Il primo non promuove lo sviluppo, ma distribuisce un reddito stagnante, il secondo vuole lo sviluppo anche per redistribuire il reddito. Ipotizziamo, presi dalla fiducia per il nostro avvenire, che l’Italia cresca grazie ai fondi europei che diventano il volano degli investimenti privati. Ipotizziamo che l’Italia riesca a crescere attraverso le innovazioni e non più attraverso la maggior spesa pubblica che lascia intatta la struttura dell’economia. In questo caso avremo lo sviluppo e non crescita.  Ipotizziamo quindi un mondo dove le innovazioni siano all’ordine del giorno. Si avranno le imprese che falliscono sostituite da quelle che innovano. Si avranno gli occupati delle imprese fallite che vanno da quelle che innovano, con l’occupazione che resta invariata. Se le cose andassero in questo modo, allora non sarebbe richiesto alcun particolare intervento dello stato, perché l’economia sarebbe in grado di auto regolarsi. 

Così però non è, perché non si ha una rioccupazione istantanea dai settori arretrati a quelli avanzati. Un sistema (sanitario, scolastico, e di garanzia di un reddito modesto) che non erogasse i propri servizi a chi non è in grado di pagare, perché non ha o non ha più i mezzi, metterebbe in seria difficoltà chi non riesce a sopravvivere alla dinamicità dell’economia. Chi non sopravvive alla dinamicità dell’economia potrebbe allora usare il diritto di voto, che dalla Seconda guerra mondiale è universale, per fermare la dinamica della tecnologia.

E lo potrebbe usare perché sorgerebbe un’offerta politica che dichiara di voler difendere chi è rimasto fuori dallo sviluppo. In questo caso il Mercato, non riuscendo ad autoregolarsi, aprirebbe lo spazio allo Stato, con quest’ultimo non con il ruolo di forzare lo sviluppo, bensì di frenarlo per mantenere un consenso accettabile. Per questa ragione, lo Stato, se vuole spingere lo sviluppo dell’economia della conoscenza, deve, sembra ma non è un paradosso, far funzionare meglio lo Stato Sociale.

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