Su quanto Milano possa o meno essere una città “femminista” ci eravamo già interrogati nei mesi scorsi, scoprendo che, nonostante sia messa meglio di altre realtà italiane, il capoluogo lombardo abbia ancora molto da fare. Ne avevamo parlato con Azzurra Muzzonigro e Florencia Andreola, urbaniste impegnate nella ricerca “Sex & the City, una prospettiva di genere sullo spazio urbano” strumento che, attraverso diversi sondaggi, ha portato alla redazione di un vero e proprio atlante di genere relativo alla città: “Milan Gender Atlas”, volume edito da Lettera Ventidue con il supporto del comune di Milano. Questo lavoro analizza la città punto per punto a partire dalla prospettiva di genere, scandagliando diversi aspetti della quotidianità e della vita femminile: dai trasporti, alla sicurezza, fino alla questione medico-sanitaria. Già, perché, come analizzato dalle autrici Muzzonigro e Andreola, il corpo e la salute delle donne sono oggetto del contendere quando si tratta di scelte legate a quello che sembra essere di dominio di tutti tranne che delle donne stesse: la maternità.
Milano, e la Lombardia in generale, possono vantare l’eccellenza delle proprie strutture ospedaliere anche dal punto di vista della sanità di genere: dalle certificazioni emesse dalla Fondazione Onda (ente che, mediante l’assegnazione di Bollini Rosa agli ospedali e Bollini Rosa-Argento alle Rsa, misura la qualità della sanità di genere nelle strutture ospedaliere di tutta Italia) emergono come realtà avanzata rispetto al resto del Paese, ma si incagliano sulle pratiche più controverse e discusse, ovvero la presenza capillare di consultori sul territorio e l’interruzione volontaria di gravidanza. I Bollini rosa ottenuti dalle strutture lombarde sono in totale 82, 29 di queste si trovano a Milano e sul totale 13 strutture hanno ottenuto il massimo riconoscimento di 3 bollini, quindi si tratta di una regione e una città nel complesso virtuose, dove però accedere ai servizi di un consultorio pubblico o all’interruzione volontaria di gravidanza non è così semplice come dovrebbe, anche per legge.
I consultori familiari sono infatti stati istituiti con la legge nazionale 405 del 1975, in un periodo storico di profonda e radicale trasformazione socio-culturale e, allora, fu una conquista piuttosto all’avanguardia dal punto di vista della sanità di genere, dato che comprendeva l’erogazione gratuita di prestazioni sanitarie quali ginecologia, ostetricia, psicologia e assistenza sociale. Allora fu stabilito il limite minimo di un consultorio ogni 20mila abitanti, ma la Lombardia si ferma a quota 0,33: solo a Milano, per legge, dovrebbero esserci 67 consultori pubblici, invece sono 18, gli altri 20 presenti sono privati.
Tutti i consultori d’Italia, poi, dovrebbero prevedere la gratuità per le visite in gravidanza, l’assistenza delle neo mamme, la partecipazione ai corsi di accompagnamento alla nascita, il percorso per le interruzioni volontarie di gravidanza e l’accesso allo spazio giovani: secondo quanto rilevato da Muzzonigro e Andreola in cinque regioni, compresa la Lombardia, si prevede il pagamento di un ticket per visite ed esami per infezioni/malattie sessualmente trasmissibili, visite per menopausa, consulenza psicologica e sessuologica, psicoterapie e contraccezione. Questo si traduce in un minore accesso delle donne a servizi cruciali quando si parla di salute sessuale o scelte che possono essere complicate da affrontare, come quella di portare o meno avanti una gravidanza.
L’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è stata introdotta nell’ordinamento italiano dalla legge 194 del 22 maggio 1978 e ribadita poi con il referendum del 1981: nonostante questo in Italia è ancora un tabù, un argomento spinoso e, purtroppo, in molti casi ancora troppo difficile. Dal 2009 è stato introdotto anche nel nostro paese l’aborto farmacologico, quando in paesi come Francia e Regno Unito questa pratica è lecita dalla fine degli anni Ottanta, ma anche così porre fine a una gravidanza in Italia non è così semplice: solo il 60% degli ospedali con reparto di ostetricia offre infatti un servizio Ivg. Stando ai dati diffusi dal Ministero della salute, nel 2018, il numero degli obiettori di coscienza tra i ginecologi italiani ha raggiunto il picco del 69%, crescendo rispetto all’anno prima e soprattutto limitando il diritto alle scelte riproduttive di moltissime donne.
Milano, nonostante le eccellenze sanitarie che la contraddistinguono e l’attenzione alla sanità di genere riscontrata dalla Fondazione Onda, sull’Ivg è ancora in forte difetto, con solo 7 strutture in cui è possibile accedere al servizio. Sette strutture in cui è possibile praticare l’interruzione volontaria di gravidanza per quasi 800mila donne (stando ai dati diffusi dal Comune di Milano la popolazione femminile al 2020 era di 721.518 persone) non è certo un dato confortante, senza contare che spesso, anche proprio per il fatto che l’incidenza degli obiettori sia altissima, le procedure per accedere al servizio possono essere particolari e spesso complesse, contribuendo a dilatare le tempistiche e ad aggravare l’impatto psicologico sulle donne che si trovano nella condizione di dover affrontare questa scelta, come rilevato da Muzzonigro e Andreola.