La guerra in Ucraina accelererà la transizione verso fonti di energia alternative agli idrocarburi. Oppure ricondurrà gli investimenti previsti per le rinnovabili alle estrazioni di gas e petrolio. A delineare un doppio scenario opposto per le tendenze future dell’approvvigionamento energetico mondiale è un rapporto dell’Onu, che a metà aprile ha cominciato a valutare l’impatto globale del conflitto.
Il bivio, almeno nel breve periodo, esiste anche e soprattutto in Europa. Prima dell’invasione dell’Ucraina, l’Unione europea aveva adottato l’obiettivo ambizioso della neutralità climatica entro il 2050 e della riduzione delle emissioni nette del 55% entro il 2030.
Dopo, ha cercato di affrancarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili russi, visto che secondo i dati del 2020 Mosca era il fornitore del 45,6% delle importazioni europee di carbone, del 38,1% di quelle di gas e del 25,7% di petrolio.
Per il carbone è stato previsto un embargo totale nel quinto pacchetto di sanzioni, per il petrolio la Commissione ha proposto una misura simile su cui alcuni Stati non sono d’accordo, mentre per il gas la strada è più lunga e passa da una serie di iniziative che dovrebbero ridurre la domanda di due terzi entro la fine dell’anno e ad azzerare le forniture «ben prima» del 2030.
Se a lungo termine queste due esigenze collimano, nell’immediato non è scontato che viaggino in parallelo. Anzi, «una temporanea deviazione dalle considerazioni climatiche dovrebbe essere accettata nell’interesse di trovare soluzioni strutturali al problema della sicurezza energetica dell’Ue», come scrive il responsabile per il clima della Banca europea per gli investimenti Jos Marie Delbeke.
Carbone e gas tornano di moda
Di fronte alla minaccia, in alcuni casi concretizzatasi, di perdere i rifornimenti russi, alcuni Paesi stanno pensando di ritardare la graduale dismissione delle proprie centrali a carbone. In Italia, ad esempio, il phase‒out definitivo è previsto per il 2025, ma subito dopo lo scoppio del conflitto il presidente del Consiglio Mario Draghi ha evocato la possibilità di prolungare la vita delle sette centrali italiane, per «colmare eventuali mancanze nell’immediato». Persino il vice‒presidente esecutivo della Commissione, incaricato dell’attuazione del Green Deal, Frans Timmermans ha detto in un’intervista che sul tema «non ci sono tabù».
Nel frattempo, sia l’Unione nel suo complesso che i singoli Stati hanno cercato nuovi accordi di approvvigionamento di gas con Paesi terzi. Dagli Stati Uniti arriveranno in Europa 15 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto in più quest’anno e 50 annuali a partire dal 2030, mentre altri volumi potrebbero giungere da Israele, previa trasformazione in gas liquido in Egitto e imbarco sulle navi nel Mediterraneo.
Il governo italiano ha trovato intese verbali con Angola e Congo e ha appena ottenuto tre miliardi di metri cubi dall’Algeria. La Spagna ha aumentato la capacità del gasdotto che la collega al Paese nordafricano e a ottobre il combustibile comincerà a fluire pure nel Baltic Pipeline, viaggiando dalla Norvegia alla Polonia e fornendo a Varsavia la metà dei suoi consumi annuali.
Operazioni che possono aiutare a ridurre la quota di 155 miliardi di metri cubi fornita dalla Russia agli Stati dell’Unione, ma che non spingono esattamente nella direzione della transizione ecologica: il gas è considerato funzionale al passaggio verso le rinnovabili e secondo la Commissione rientra negli investimenti sostenibili, ma il suo utilizzo produce comunque emissioni di gas a effetto serra.
Stando all’ultimo rapporto dell’Ipcc, il Panel delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, il pianeta non se ne può permettere molte: andrebbero ridotte del 43% entro il 2030 a livello globale per avere più chance di contenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 gradi e i Paesi occidentali dovranno inevitabilmente tagliare di più degli altri.
Le spine di REPowerEU
«Siamo di fronte a un crocevia e sono molto preoccupata: perché potremmo imboccare la direzione giusta, ma anche tornare indietro sulla strada della transizione», dice a Linkiesta l’europarlamentare Eleonora Evi di Europa Verde. A non convincere la deputata sono alcune parti del recente piano REPowerEU, che dettaglia le misure per porre fine alla dipendenza energetica dalla Russia.
Ci sono alcune proposte valide, come l’aumento del target vincolante di risparmio energetico, che passa dal 9% al 13%, spiega Evi, o l’incremento dal 40% al 45% della quota prevista per le rinnovabili nei consumi finali. Ma anche delle note stonate: «Ci sembra che vengano lasciate le porte troppo aperte agli investimenti sui combustibili fossili». Il riferimento, in particolare è alla proposta di inserire un nuovo capitolo nei Piani nazionali di ripresa e resilienza dei vari Stati membri, dedicato alle misure di REPowerEU.
Nel testo si legge effettivamente che «le riforme e gli investimenti che migliorano le infrastrutture energetiche per garantire forniture immediate di petrolio e gas nell’interesse complessivo dell’Unione» saranno esentati dal rispetto del principio do-no-significant-harm. In sostanza, queste voci di spesa si sottraggono alla valutazione d’impatto applicata a tutti i Pnrr, tramite cui si garantisce che gli investimenti previsti non arrechino danni significativi all’ambiente.
In questo nuovo capitolo, spiega la Commissione, possono essere inclusi progetti legati alla distribuzione e allo stoccaggio di gas o di gas liquido che abbiano «rilevanza europea». Secondo varie associazioni ambientaliste, si tratta nei fatti di un’autorizzazione a utilizzare i soldi del Next GenerationEU contro la transizione ecologica: REPowerEU consente di finanziare quasi 50 progetti ed espansioni di infrastrutture a combustibili fossili, 13 dei quali tramite i finanziamenti del piano di ripresa dalla pandemia, ha denunciato Eilidh Robb di Friends of the Earth.
Il punto più discusso della strategia, però, riguarda le fonti di finanziamento. REPowerEU dovrebbe ricevere 20 miliardi di euro in più da Ets (Emission Trading System), il metodo europeo di compensazione per l’emissione di anidride carbonica nei processi produttivi.
Si tratta di un sistema cap and trade, cioè fissa delle quote massime di emissioni di gas serra per ogni singola azienda.
Chi eccede queste soglie è obbligato ad acquistare nuove quote, mentre chi con la sua attività genera meno emissioni della quantità assegnata può rivendere la sua parte.
Questo meccanismo, almeno nelle intenzioni, è un forte incentivo per gli operatori commerciali a economizzare le proprie tratte, oppure a trovare modelli alternativi di business, magari puntando sulle energie rinnovabili.
Ma se aumentano i permessi totali da vendere, si abbassa il prezzo e nonostante il ricavato totale per le casse europee sia più alto, le singole realtà produttive pagheranno un prezzo minore per le loro emissioni, subendo così una spinta meno incisiva alla decarbonizzazione.
Tanto che molti in Europa, vedono la misura come un «passo indietro» e gli ambasciatori di Germania, Danimarca, Paesi Bassi, Lussemburgo, Austria, Finalndia e Irlanda hanno già espresso parere negativo, secondo quanto riporta il quotidiano Politico. La rotta per navigare lontano dalla Russia e verso la neutralità climatica è piena di ostacoli.