Prima che gli esperti di Russia e sicurezza europea seguissero il triste destino dei virologi e si moltiplicassero come i funghi, c’era un tema che regolarmente faceva capolino dentro la comunità accademica e di policy: una delle maggiori incertezze strategiche emerse dopo il 2014 è se Vladimir Putin persegua o meno un Piano con la P maiuscola.
Chiaramente è un interrogativo mal posto: nessun obiettivo rimane invariato per decenni, così come è sbagliato ridurre le scelte della Federazione Russa alle convinzioni di un solo uomo. Le decisioni del Cremlino – e qui si intende l’Amministrazione Presidenziale, con tutte le lotte intestine, i profili amministrativi e gli interessi che cozzano al cospetto del trono – sono influenzate in ultima analisi dalla situazione politica globale e ciò che essa rende possibile.
Soprattutto in un Paese la cui ideologia dominante è volutamente ridotta a un minimo comune denominatore vagamente reazionario, è molto difficile prevedere come gli obiettivi pragmatici di chi è al comando cambieranno nel corso del tempo. Dire di voler ristabilire la grandezza della Russia non è coniare una strategia, è accendere un cero votivo che dice ben poco sulle decisioni politiche ne conseguono, e ancor meno su come viene condotta una guerra.
Se si aggiungono al mix un apparato amministrativo farraginoso e una classe dirigente eterogenea, il risultato sarà una politica estera spesso contraddittoria e caratterizzata da scelte e avventure militari che Mosca non si potrebbe permettere. Come ha scritto l’analista Mark Galeotti, Putin non è un grande stratega, bensì un tattico.
«Qual è la strategia del Cremlino?» è una domanda indissolubilmente legata a una preoccupazione più immediata, ovvero «Quand’è che i russi si fermeranno in Ucraina?». La risposta spiccia è ovviamente che non possiamo saperlo. Capire il perché non possiamo saperlo è tuttavia molto più interessante.
Da Mosca vediamo arrivare un numero di messaggi che riflettono le sensibilità dei diversi attori politici attivi al vertice del potere russo. Militaristi e siloviki sbraitano contro la decisione di condurre una guerra limitata, additando il fallimento della prima offensiva a una mancata mobilitazione nazionale ed esigendo che la Russia getti tutta la propria potenza nel conflitto (molto poco) per procura con la Nato.
I tecnocrati stanno cercando di limitare i danni delle sanzioni e salvare il paese da un isolamento tale dall’economia globale, mentre le Forze Armate devono dimostrare di essere in grado di svolgere il proprio compito. Sul campo, molti ufficiali devono anche salvare la propria testa dall’ondata di licenziamenti scatenata dalla sconfitta iniziale e che sicuramente aumenterà in intensità nella prima fase post-bellica.
Questa moltitudine di interessi è tipica di ogni Stato complesso, ma è particolarmente pronunciata in Russia, dove la gerarchia delle autorità politiche è dettata da una gara fra chi riesce a meglio a soddisfare l’unico punto di riferimento del sistema: Putin.
Conseguenza logica di questa competizione politica è anche la mancanza di un’istanza tecnico-politica credibile che unisca le diverse prospettive analitiche sul conflitto in Ucraina. Letture più o meno ottimistiche della situazione sul campo sono più legate agli interessi delle diverse fazioni politiche piuttosto che a una prospettiva strategica condivisa. Anche qui, nulla di nuovo: fenomeni simili esistono anche in Occidente e, nonostante la notizia riportata da Meduza su una nuova offensiva su Kiev entro l’anno, è difficile credere che le Forze Armate vorranno umiliarsi nuovamente con obiettivi troppo ambiziosi.
Quello che vediamo finora è piuttosto una ripetizione di quella che è stato l’approccio russo alla politica globale e regionale negli ultimi dieci anni: mantenersi il maggior numero di opzioni politiche aperte e, in un secondo momento, scegliere quella ritenuta più adatta.
Quale via è effettivamente selezionata dipende più da quale “imprenditore politico” è riuscito a ingraziarsi momentaneamente Putin, piuttosto che da un approccio strategico al conflitto: prima del 24 febbraio era stata la Duma a presentare il disegno di legge per il riconoscimento delle repubbliche separatiste, mentre l’intervento russo in Africa e il possibile reclutamento di foreign fighters tramite il Wagner Group era opera di Prigozhin.
Se le azioni russe rispondono prima di tutto a una logica politica interna, quand’è che i russi decideranno di porre fine alla guerra? Ovviamente ci sono considerazioni su cosa potrebbero essere concessioni accettabili che sono trasversali a tutta la classe politica russa. La cessione del Donbass probabilmente non figura fra queste. Detto questo, in guerra è la circostanza militare a dettar legge: la retorica politica non può annullare i fatti sul terreno.
E i fatti sono i seguenti: è altamente improbabile che i russi possano sfondare in maniera spettacolare, causa carenze di command and control, cioè la gestione di operazioni complesse. L’unica speranza di avanzare è una guerra di logoramento basata sull’artiglieria, che però rende gli spostamenti del fronte talmente lenti da renderli reversibili con sforzi assolutamente alla portata degli ucraini.
I rifornimenti a Kiev, se continueranno, permetteranno a Kiev di montare una controffensiva prima che le perdite umane diventino troppo onerose e imporre condizioni più favorevoli per un negoziato, mentre i sistemi anti-artiglieria miglioreranno la tenuta delle linee difensive. Non considerando l’opzione nucleare, è improbabile che un aumento dei bombardamenti aerei cambi la situazione, pure se Mosca volesse rispondere a possibili attacchi sulle città russe.
A prescindere da come evolverà la situazione sul terreno, l’unica variabile esterna che influenzerà la decisione russa di proseguire la guerra sarà l’erosione delle capacità militari in Ucraina. La strategia è una convergenza fra obiettivi e preferenze politiche con i mezzi a disposizione. Per osservare un sistema come quello russo, che sembra concentrarsi soprattutto sui mezzi e meno a formulare obiettivi sostenibili e coerenti, è saggio concentrarsi soprattutto su ciò che la Russia può fare con i propri strumenti. I suoi obiettivi si adatteranno di conseguenza.