Non capita spesso di vedere il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov così poco combattivo in conferenza stampa. D’altra parte, un approccio sottotono è forse l’unico correttivo utile all’esuberanza ipernazionalistica di Dimitry Medvedev. Il presidente del Consiglio di Sicurezza, che parla ormai più per il proprio tornaconto mediatico che in nome del governo, ha reagito in maniera piuttosto prevedibile alla notizia delle dimissioni di Mario Draghi da Presidente del Consiglio, accostandolo alle dimissioni di Boris Johnson la settimana scorsa e suggerendo che il ritiro dalla vita politica sia l’unico destino dei capi di governo che più hanno appoggiato Kyjiv.
La liturgia del potere putiniana prevede tuttavia il mantenimento delle apparenze, anche nel pieno di una guerra criminale, e perfino con chi è nei fatti considerato un nemico per procura. Peskov si è visto quindi costretto a rassicurare che la Russia «non interferisce nelle questioni di politica interna» di altri Stati, provando forse a disinnescare quelle teorie del complotto che potrebbero casualmente portare maggiore attenzione alle vere istanze di ingerenza politica operate dai servizi segreti del Cremlino.
Vero è che con l’addio di Boris Johnson, il leader straniero più popolare in Ucraina, e la crisi del governo di Draghi, l’unico premier italiano ad aver spinto a una rottura con Mosca negli ultimi vent’anni, il campo occidentale avrà molte più difficoltà ad affrontare i prossimi mesi di conflitto politico con la Russia.
E l’Ucraina? È difficile quantificare le conseguenze che avrà la turbolenza politica in due dei principali Paesi Nato sulla guerra in corso. È ragionevole che la doppia crisi di governo avrà un impatto modesto sulla situazione militare, anche se per motivi opposti.
Il supporto britannico a Kyjiv è bipartisan, monolitico all’interno governo monocolore Tory e sufficientemente istituzionalizzato da non soffrire un paio di mesi di transizione. L’addestramento dei soldati ucraini nel Regno Unito non necessita di ulteriori decisioni politiche e gli ultimi pacchetti di aiuti militari annunciati sono talmente ingenti che richiederanno qualche mese per essere processati. Il miliardo di sterline in droni, sistemi di difesa aerea e guerra elettronica è ciò che serve ai difensori in questa fase.
Se l’impegno britannico è troppo massiccio per essere influenzato dalla crisi politica, quello italiano non è quantificabile a causa della segretezza attorno ai sistemi d’arma ceduti da Roma in questi mesi. D’altra parte il valore monetario degli aiuti finanziari e bellici – 482 milioni di euro – è relativamente basso rispetto ad altri Paesi.
Il contributo italiano in questi mesi è stato per lo più utile per il suo valore politico, soprattutto nell’ottica di consolidamento del blocco euroatlantico. La fragilità economica del Paese lo rende forse l’anello più debole per quel che riguarda la politica di isolamento e sanzioni ai danni di Mosca, e in un sistema istituzionale come quello europeo, convergente sul minimo comune denominatore, la determinazione del governo Draghi ha permesso di architettare una risposta dura senza temere improvvisi capitomboli.
Non bisogna poi dimenticare che le voci più concilianti all’interno dei governi tedeschi hanno sempre beneficiato dal poter fare sponda su Roma per ammorbidire la posizione europea. Non è stato questo il caso con Draghi, complice il fatto che nei suoi rapporti internazionali ha spesso potuto capitalizzare sul fatto di essere Mario Draghi, prima che capo del governo italiano.
Per questo l’uscita di scena di Draghi, un governo balenare, una crisi dei debiti sovrani italiani, una campagna elettorale con l’inflazione galoppante alle porte di un inverno senza gas – in poche parole, il caos politico – sono potenzialmente così vantaggiose per il governo russo.
Con il conflitto (per ora) militarmente limitato a una dimensione regionale, il destino dell’Ucraina dipenderà dalla capacità di Mosca di estorcere un nuovo status quo in una specifica finestra temporale, identificabile con l’autunno 2022 e la primavera 2023.
L’industria pesante russa si sta avviando verso un totale controllo da parte dello Stato, che dovrebbe permettere una parziale ricostituzione degli arsenali. Rimane il tema del reclutamento, su cui sarà possibile dare un giudizio solo dopo la fine dell’attuale chiamata di leva a fine luglio.
Fra la formazione di nuove unità pseudovolontarie come il “Reggimento Sobyanin” a Mosca e l’integrazione forzata di qualche recluta di leva è però ragionevole pensare che la Russia sarà in grado di rifocillare le unità che hanno subito le perdite più pesanti.
Più difficile è immaginare che queste unità riusciranno a mantenere un livello di preparazione accettabile nel caso dovessero subire ulteriori perdite nella seconda metà dell’anno. Lo stesso discorso vale per le sanzioni, un’arma economica il cui effetto si fa sentire nel medio-lungo periodo.
La mobilitazione economica ordinata dal Cremlino darà dei risultati verso fine dell’anno; a partire dal 2023 è però verosimile che le enormi difficoltà nel procurarsi chip e tecnologie sofisticate porterà a un relativo calo nella qualità degli armamenti russi. Sarà interessante osservare in questo senso se e quando i russi decideranno di organizzare dei referendum fittizi per annettere i territori occupati, confermando così l’impegno a lungo termine di Mosca all’occupazione di queste regioni.
Cosa c’entra tutto ciò con il Regno Unito e l’Italia? La fase nella quale la Russia avrà la possibilità di massimizzare i propri sforzi militari è proprio quell’autunno caldo in cui l’Europa sarà nel suo momento di maggiore vulnerabilità. Tutto questo è vantaggioso per il Cremlino, che si sta preparando a gestire una guerra di logoramento di medio periodo, contando sul fatto che il supporto occidentale per l’Ucraina andrà a scemare a causa della crisi economica e il relativo declino della forza di combattimento dei difensori.
L’Ucraina non sta ottenendo una quantità sufficiente di armamenti per poter sostenere una difesa costante e geograficamente omogenea. Allo stesso tempo, le ingenti perdite subite rendono qualsiasi controffensiva un azzardo da soppesare con cautela. Ne stiamo vedendo i frutti fra Sloviansk e Bakhmut, dove la pressione russa sta montando specialmente nel punto di congiunzione fra le linee ucraine nel Donbass e Kharkiv.
È probabile che anche in mancanza di uno sfondamento decisivo russo, gli ucraini saranno prima o poi costretti a una ritirata ordinata dai punti più a est in questa zona del fronte, prima che le truppe russe minaccino le linee di rifornimento dal nord.
Le misure che potrebbero attutire queste dinamiche dipendono da decisioni politiche, a partire da un robusto e sostenibile aumento della produzione militare, che finora nessun governo ha avuto la volontà di prendere.
È anche evidente che non è il tipo di scelta che un Paese europeo può prendere in isolamento, soprattutto se si tratta di uno stato membro dell’Unione europea, soggetto a regole comuni. Con Regno Unito e Italia politicamente in subbuglio è difficile che si potrà aprire questa conversazione strategica nei prossimi mesi.
Come se non bastasse, Roma e Londra rischiano di essere assenti dalla scena politica proprio nelle settimane in cui andrà elaborata la strategia contro la crisi economica, che se mal gestita scatenerà forze centrifughe mortali per qualsiasi tipo di coalizione a supporto dell’Ucraina.
È noto che non tutto il panorama politico europeo è interessato a sostenere le forze di Kyjiv. Se le convulsioni politiche ed economiche di queste settimane dovessero portare queste forze al centro della scena, almeno in un altro Stato membro dell’Unione, qualsiasi tipo di strategia di largo respiro diventerà infinitamente più complessa da gestire.
Insomma, anche se non sono orchestrate da Mosca, le attuali crisi di governo saranno apprezzate dal regime russo, forse imbarazzato di non aver avuto le capacità di intelligence o il potere economico per provocarle direttamente.