Lies & DisorderIl caos a Dover è lo specchio del mandato di Boris Johnson

Le lunghe code al passaggio di frontiera tra Regno Unito e Francia sono una conseguenza del populismo che ha governato Londra negli ultimi anni, a partire dalla Brexit. Downing Street ha provato a incolpare i francesi, ma è solo il suo ennesimo slogan sgonfiatosi alla prova dei fatti

AP/Lapresse

«Quanto è pronto il porto di Dover al no deal? Al 100%». È una card propagandistica dei conservatori sui social, ancora online, del 21 settembre 2019. Il virgolettato è del ceo dell’infrastruttura Doug Bannister, al suo fianco Boris Johnson, da poco primo ministro, con addosso una pettorina sgargiante, divisa di una campagna trionfale verso il voto. Il no deal è stato scongiurato, la parabola politica di BoJo è naufragata, ma le code e i ritardi di questi giorni – per cui il governo ha tentato, invano, di incolpare i francesi – svelano l’ennesima bugia dei Tories invecchiata male. Un altro slogan sgonfiatosi alla prova dei fatti.

Dal porto partono i traghetti per l’Europa. A una decina di chilometri da lì si trova, sempre in Kent, lo sbocco britannico del tunnel della Manica, che collega Folkstone a Calais. Lo scorso fine settimana, nella regione è stato dichiarato un «grave incidente».

Code chilometriche, migliaia di turisti che non sono riusciti a imbarcarsi, altri costretti a dormire in auto, bloccati ore in colonna per avanzare di poche decine di metri. La paralisi, cominciata venerdì, si è alleviata solo domenica. Le autorità erano arrivate a consigliare di viaggiare con scorte di cibo e acqua, di presentarsi con largo anticipo, tra la frustrazione di migliaia di inglesi che volevano andare in vacanza.

Non è stata una tempesta perfetta. Da quell’angolo dell’isola parte, da sempre, l’esodo. Lo stallo è stato causato dall’«operazione Brock», un protocollo che scatta quando si sovraccarica il traffico dei camion. Di fatto, trasforma un pezzo dell’autostrada M20 in un’area di sosta e di smistamento. In questo caso, è stato chiuso un tratto lungo una quarantina di chilometri, dove hanno stazionato più di tremila autocarri. I sostenitori della Brexit bollavano come «terrorismo» gli scenari, evocati dai giornali e dal fronte europeista, dove il Kent si trasformava in un parcheggio a cielo aperto. Invece eccoci qui, come era già successo nel 2020.

Così, gli automobilisti sono stati dirottati sulle strade minori, che si sono intasate. Alcune famiglie hanno raccontato di aver impiegato più di sei ore per percorrere le ultime miglia, in quello strapuntino di Inghilterra. Una performance stile rientro dalla Liguria a Milano in una domenica da bollino nero. I flussi, tornati ai livelli di prima della pandemia, sono una scusante parziale. I rallentamenti dipendono dai controlli, più lunghi che in passato. Da quando il Paese è uscito dall’Unione europea, infatti, lì è risorto un confine. Per varcarlo, non solo vanno esibiti i documenti, ma viene pure timbrato il passaporto.

Da qui l’allungamento dei tempi. Non proprio imprevedibile. Downing Street ha accusato la controparte francese di non aver potenziato l’organico in servizio sulla frontiera. Un incidente in autostrada ha contributo a stravolgere la circolazione, ma non è abbastanza per giustificare il caos durato tre giorni.

«Il porto di Dover, che è privato, preferisce incolpare la polizia francese», ha detto il prefetto di Calais, Georges-François Leclerc. Ha declinato ogni responsabilità anche il ministro dei Trasporti dell’Eliseo, Clement Beaune, mentre il deputato Pierre-Henri Dumont (dei Républicains) ha parlato chiaramente di «conseguenze della Brexit».

Il governo inglese si è affrettato a smentire. Un portavoce ha promesso 32,5 milioni di sterline di investimenti per migliorare le strutture di parcheggio in Inghilterra, per «aiutare gli automobilisti a pianificare meglio i loro viaggi e le loro soste». Se è una barzelletta, sull’altra sponda della Manica non l’hanno capita. Anche perché l’importo è pericolosamente vicino a quello, di 33 milioni, del progetto proposto dalla Francia per adeguare il porto al dopo-Brexit. Lo ribadisce Dumont in un tweet: «Pochi mesi fa l’esecutivo britannico ha respinto un piano per raddoppiare le postazioni di controllo dei passaporti».

Downing Street avrebbe invece stanziato solo 33mila sterline a fine 2020: lo 0,1% della cifra richiesta. Da quello snodo passano ogni anno 13 milioni di persone e 2,5 milioni di veicoli che trasportano merci.

L’unico fattore di discontinuità è la Brexit, ma non dal punto di vista ideologico o politico. I conservatori, che la attendevano e l’hanno festeggiata, ci hanno traghettato il Regno Unito senza predisporre le contromisure necessarie. È un fatto. Eppure, dopo mesi di scandali, nel “Paese reale” c’è chi preferisce ancora credere alle «vendette» francesi invece di ammettere l’impreparazione di una classe dirigente, intenta a rinnovarsi nel segno della continuità populista.

Finché non sarà operativa una barriera doganale automatizzata, l’incubo dello scorso weekend potrebbe diventare la «nuova normalità» secondo diversi esperti. La bulimia cantieristica era tipica di Boris Johnson, che sognava un tunnel sottomarino tra l’Irlanda e la Scozia e una rotonda sotto all’Isola di Man. Fanta-ingegneria.

Le code di Dover sono un’altra buona metafora del suo mandato ormai ai titoli di coda: bugie elettorali sgretolatesi in fretta, pirotecnica nei talk show ma disorganizzazione al governo, di cui fa le spese la gente comune. Come il suo scellerato accordo per deportare i migranti in Ruanda. Il Paese africano, che ha ricevuto 120 milioni di sterline da Londra, fa sapere di poter ospitare solo 200 profughi. Alla modica cifra di 600mila sterline a persona.

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