Le lunghe giornate afose senza una goccia di pioggia, il Po in secca, il possibile razionamento delle risorse idriche: ricordiamo tutti a quali immagini e preoccupazioni abbiamo associato la parola siccità non più di un paio di mesi fa. Adesso, con l’autunno in corso e qualche pioggia in più, il tema è passato in secondo piano. Eppure, anche se l’emergenza propriamente detta è rientrata, la situazione resta seria, specialmente tra Piemonte e Lombardia.
Lo ha evidenziato anche il bollettino del 13 ottobre dell’Osservatorio permanente sugli utilizzi idrici nel distretto idrografico del fiume Po: le precipitazioni al di sotto della media stagionale e le temperature insolitamente calde stanno rischiando di «allungare la coda della stagione più siccitosa di sempre» anche nei mesi autunnali.
Con il termine siccità, specialmente nel linguaggio dei media, si indicano in realtà più cose: non solo la prolungata situazione meteo-climatica con precipitazioni molto al di sotto della media, ma anche le conseguenze di questo deficit sia sulle risorse idriche, sia sulle capacità dei sistemi di approvvigionamento di garantirci l’acqua di cui abbiamo bisogno per le attività quotidiane. «Quella che viene chiamata crisi idrica, e rispetto alla quale viene dichiarato lo stato di emergenza, è appunto questa incapacità del sistema di soddisfare i fabbisogni idrici», spiega Emanuele Romano, ricercatore all’Istituto di Ricerca sulle Acque del CNR che da tempo si occupa di temi legati a gestione delle risorse idriche e siccità.
Siccità in autunno: di cosa stiamo parlando
Sebbene in modo disomogeneo e certamente al di sotto della media stagionale, in autunno ha ricominciato a piovere: non possiamo quindi parlare propriamente di siccità meteo-climatica. Anche la crisi idrica più grave (sebbene lo stato di emergenza sia ancora vigente) è rientrata. Non che sia merito di qualche intervento particolare: semplicemente, la nostra esigenza di acqua è diminuita perché è terminata la stagione dell’irrigazione dei campi. Quando questa ricomincerà, la prossima primavera, il fabbisogno tornerà a essere più alto, come era fino a pochi mesi fa. Molte risorse idriche, invece, sono rimaste in sofferenza: i laghi e i fiumi che abbiamo visto in secca non sono tornati ai livelli considerati normali e le falde, le zone permeabili che si trovano al di sotto di alcuni bacini d’acqua, sono impoverite.
Quando una risorsa idrica – fiume, sorgente, invaso, lago, falda – si svuota, non basta un acquazzone a ripristinare una condizione di normalità e certamente non sono bastate le piogge autunnali cadute fino a oggi, per giunta abbinate a temperature eccezionalmente calde. «Un certo recupero dal punto di vista idrologico c’è stato, non siamo alla situazione drammatica di fine luglio», sottolinea Romano. «Le risorse idriche superficiali e i piccoli-medi invasi si “ricaricano” in tempi più brevi: in alcuni casi bastano uno o due mesi di pioggia affinché si rigenerino. In altri casi, come per esempio le falde, i tempi sono molto più lunghi sia in fase di ricarica, sia in fase di eventuale ritorno a una situazione di normalità dopo una crisi. A volte servono mesi, addirittura anni».
Attualmente, come nota l’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, i valori di portata del grande fiume che nasce dal Monviso sono ovunque sotto la media: nella stazione di riferimento di Piacenza si registrano 297 metri cubi di acqua al secondo (mc/s) a fronte di un valore della media del periodo che dovrebbe misurare 770 mc/s. Ancora, a Cremona scorrono 387 mc/s invece di 961 mc/s, a Pontelagoscuro, frazione di Ferrara, 498 mc/s invece di 1213 mc/s. Non va meglio nei grandi laghi del nord Italia, il cui riempimento è ai minimi storici: il lago Maggiore è pieno al 19 per cento, il lago di Como al 9 per cento, il Garda al 22 per cento e quello d’Iseo e Idro all’8 per cento.
Quali sono gli scenari futuri
Leggendo i dati, è inevitabile pensare al futuro. Ma nonostante questo, precisa Romano, non è possibile delineare con certezza uno scenario: «Non abbiamo le capacità scientifiche per fare una previsione a sei mesi». Nel caso del bacino del Po, ad esempio, molto dipenderà dalle precipitazioni piovose e nevose (che nel 2022 in quota erano state scarse) che si registreranno durante l’inverno, con alcune variabili da tenere a mente. Per quanto riguarda la pioggia, è fondamentale che si tratti di precipitazioni magari più scarse della norma, ma perlomeno costanti.
Quando la quantità di acqua che cade in genere nell’arco di più mesi si concentra in un unico evento meteorologico estremo, il risultato che si ottiene in termini di riempimento delle falde e di rigenerazione delle risorse idriche non è lo stesso: «La ricarica delle falde è molto più efficace quando piove costantemente: altrimenti l’acqua scivola in superficie. Una diga invece potrebbe riuscire a raccogliere comunque acqua, ma con un problema di solidi sospesi: la pioggia che cade con violenza porta con sé parecchia terra; quindi, serve più tempo prima che quell’acqua torni disponibile».
Per quanto riguarda le precipitazioni nevose in quota, invece, bisognerà fare attenzione non solo alla loro quantità, ma anche alla loro velocità di scioglimento – detto in altre parole, a quanto sarà calda la prima metà del 2023. «Il manto nevoso funziona come una grande diga: accumula risorsa idrica in inverno e rilascia in primavera», prosegue l’esperto, «se le temperature elevate anticipassero il periodo di fusione della neve, potrebbero esserci da una parte una disponibilità di acqua troppo anticipata e dall’altra una carenza successivamente, quando ce ne sarebbe bisogno. Quando nevica tanto, questo è un problema relativo. Se nevica poco, la situazione è diversa».
Cosa dobbiamo fare (e chiedere): tre proposte
Al netto dell’impossibilità di fare previsioni certe, sappiamo però che la realtà della crisi climatica ci mette di fronte a un rischio concreto di siccità a lungo termine, con tutte le sue conseguenze. Ci sono tre punti, spiega Romano, su cui possiamo lavorare per prepararci a una futura scarsità o crisi idrica – tenendo ben presente il fatto che nessuno di questi, da solo, può essere una soluzione definitiva.
Il primo: ridurre i consumi. «Bisogna farlo in ambito idropotabile e civile, perché con 215 litri ad abitante al giorno siamo i peggiori consumatori d’Europa, e soprattutto nel settore irriguo, che utilizza poco più del 50 per cento delle risorse». I consumi da ridurre sono anche quelli energetici, perché anche «la produzione di energia richiede acqua: sia perché produciamo energia con l’idroelettrico, sia perché questa serve a raffreddare gli impianti termoelettrici».
Il secondo punto: iniziare davvero a riutilizzare in agricoltura le acque reflue trattate. È un aspetto su cui altri Paesi si sono già mossi, più o meno recentemente, ma sul quale in Italia siamo ancora molto indietro: «Attualmente siamo intorno al 4 per cento di acque reflue recuperate. Se recuperassimo tutto, arriveremmo a coprire circa il 40 per cento del fabbisogno irriguo. Ma per riuscirci bisogna creare un sistema adatto: serve la compresenza, entro distanze ragionevoli, di un depuratore e di un distretto irriguo». Infine, bisogna intervenire sulle perdite del sistema di distribuzione dell’acqua, che nel nostro Paese è molto vecchio e inefficiente: «Per quanto riguarda l’acqua potabile, abbiamo perdite di poco inferiori al 50 per cento. Con investimenti seri, potremmo ridurle al 30 per cento».
Gli altri interventi possibili sul lungo periodo
Ci sono almeno altre due riflessioni che si possono portare avanti sul lungo periodo, secondo Romano. Prima di tutto, c’è un tema di diversificazione delle fonti idriche: dal momento che, come abbiamo già visto, le diverse tipologie (falda, bacino superficiale…) reagiscono in modo diverso alle precipitazioni, sarebbe decisamente opportuno averne a disposizione più di un tipo, così da potersi affidare a quella che si rigenera più in fretta o che si esaurisce più lentamente, in base alle necessità dettate dalle circostanze. In alcuni casi questa diversificazione delle fonti è impossibile per via di limitazioni geografiche, mentre altrove si potrebbe effettivamente creare un simile sistema.
Se alcune opere idrauliche possono rivelarsi utili, però, secondo Romano bisogna avere chiara l’idea che non si tratta di una regola universalmente valida. Il riferimento è all’irreggimentazione dei fiumi, cioè a quegli interventi che impediscono ai corsi d’acqua di esondare e che negli ultimi trent’anni, specialmente nel nord Italia, sono stati condotti in maniera massiccia, principalmente per ragioni di protezione idrogeologica. «Quando il fiume esonda, ricarica molto la falda: avere limitato questo processo è in alcuni casi un lato assolutamente negativo». Certamente è ormai difficile tornare sui propri passi, visto che in molte di queste aree sono state costruite case e strade, ma «oggi bisogna avere chiara l’idea che l’irreggimentazione non è una soluzione per tutto».
Anche la costruzione di nuove dighe potrebbe non rivelarsi determinante come si crede, secondo l’esperto: «È passata e sta ancora passando l’idea che una risposta alla crisi idrica sia quella di costruire invasi e dighe, perché in questo modo si può raccogliere la pioggia che cade in un unico luogo e in un solo colpo. È vero solo in parte: se si costruisce un grosso invaso, bisogna fare in modo che il suo volume sia tale da superare la durata del periodo siccitoso. Se non è così, si rischia di basare il fabbisogno idrico su una risorsa che ci metterà moltissimo tempo per tornare in condizioni di normalità».