Streets of FerraraI fan di Springsteen, i detrattori di Roccella e la corteccia prefrontale dei puccettoni

Non fate parlare gli ammiratori di Bruce con gli adolescenti che rivendicano lo spazio culturale della ministra nello stand della Regione Piemonte, altrimenti scoppia un’altra polemica

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Nei momenti di bicchieremezzopienismo, vengo colta da un’ilarità un po’ isterica al pensiero che questa non sia poi la più mediocre delle epoche; sì, è praticamente impossibile trovare un barista che faccia un cappuccino decente, ma anche questo secolo ha delle specializzazioni: mai prima d’ora la sinistra era stata così costante nel mancare il punto.

Nei momenti di bicchieremezzopienismo, io penso che si può sempre far conto su di me per scansare la notizia, e quindi quando la presentazione del libro di Eugenia Roccella è stata interrotta da gente la cui corteccia prefrontale non s’è ancora finita di formare (giuro che poi alle neuroscienze ci torniamo) io ero su un treno che se ne andava da Torino.

Perdendomi quindi uno degli spettacoli recenti più equivocati nelle interpretazioni dei giorni successivi: più dell’opportunità di tenere un concerto a Ferrara nel mezzo del disastro della regione, più dell’armocromista che ti veste male e tu le fai pure pubblicità, più degli adulti che si ostinano a non capire cosa significhi «vernice lavabile».

Il dualismo, credo d’averlo già detto, è quello della scena del bagno in “Pretty Woman”: tra «poche persone hanno la capacità di sorprendermi» e «beato te, la maggior parte mi sciocca a morte». Se posso proporre una terza via (che come sappiamo finisce sempre malissimo), io sento d’aver preso il peggio di Richard Gere e il peggio di Julia Roberts: nonostante nulla più riesca a sorprendermi, resto ogni volta scioccata a morte.

E quindi sono giorni che leggo: non far parlare qualcuno è censura, è fascismo, è inciviltà. E che leggo: è fascismo denunciare i contestatori, da che mondo è mondo i politici vengono contestati, quella è ministra mica scrittrice. (Avrete notato che le opposte posizioni hanno un punto in comune: comunque vada, dev’essere fascismo, in quest’epoca lessicalmente nullatenente).

Non m’interessa stabilire chi abbia ragione in questa divisione del mondo (se può essere utile: immaginiamo che Laura Boldrini, quand’era presidente della Camera, fosse stata contestata da un qualsivoglia gruppo d’impresentabili – tassisti, antivaccinisti, ciellini).

M’interessa la follia dell’idea che, a una fanciulla che dice «Non possiamo stare a guardare mentre ancora una volta gli spazi ci vengono tolti per venire dati a posizioni antiabortiste e negazioniste», si faccia un favore facendola parlare.

Alla ragazza che prende il microfono e legge il suo compitino nessuno – una madre, una professoressa democratica, un Togliatti – ha detto «Ma quali spazi ti vengono tolti, pulcina? Quelli allo stand della regione Piemonte nel quale si svolge la presentazione? Chi te li aveva promessi? Uno spacciatore di nocciole? Avevi un tuo libro da presentare (come tutti) e ti senti marginalizzata? E anche: cosa credi significhi “negazionismo”, di grazia?».

Alla ragazza non s’è finito di formare il cervello, e pensa scemenze come le pensavamo tutti alla sua età, solo che noi abbiamo avuto la clamorosa botta di culo d’essere piccoli in anni in cui i grandi non ci si filavano, e non avevano la smania di sentirsi moderni dandoci ragione sulla Falcucci, al massimo ci facevano trovare un piatto da mettere nel microonde se tornavamo tardi, e comunque i telefoni non avevano le telecamere: il nostro essere scemi restava un fatto perlopiù privato.

Invece a quella ragazza lì, ai suoi coetanei, ai giovani fisiologicamente stupidi di questo secolo i grandi corrono a dare ragione, a mandare troupe televisive, a prenderli sul serio col terrore di altrimenti risultare «boomer» (ho sempre sospettato che la paura delle parole ci avrebbe fatto fare una brutta fine, ma non ho capito in che abissi di scemenza ci avrebbe precipitati finché non è arrivata «boomer»).

Una settimana fa sono andata in tv a parlare del mio nuovo libro e, quando mi hanno chiesto degli universitari in tenda, ho detto quel che dico nel libro: che non è sensato che gli adulti prendano così sul serio i ragazzini, considerato che le neuroscienze ci dicono che la corteccia prefrontale finisce di formarsi a venticinque anni (se sei sano: in caso di disturbi, pure più tardi).

È un concetto che mi è così caro che la redattrice che ha seguìto il libro mi ha, fino alla settima bozza, annotato tenacemente che, insomma, forse questa cosa della corteccia prefrontale avrei potuto ripeterla meno di venticinque volte (ora non ricordo, ma forse alla fine per accontentarla le ho ridotte a ventiquattro).

Ovviamente non sono così ignara del tempo in cui vivo da pensare che un libro di quasi duecento pagine abbia lo stesso impatto di pochi secondi di televisione, ma mi fa comunque molto ridere che da una settimana mi arrivino risposte indignate riassumibili in «tu non devi permetterti di dubitare della corteccia del mio puccettone» (e anche in «hai fatto molto male a metterti contro i giovani, ora non ti compreranno»: è un saggio in cui non si dice che i giovani ci salveranno, né che sono vittime, né che sono migliori di noi – come diavolo vi viene in mente che volessero comprarlo?).

Non che, in questo hanno ragione alcuni di quelli che m’insultano, l’aver superato la fase dello sviluppo neurologico sia garanzia d’intelligenza (sennò non avrei dedicato un intero libro a dire che i ventenni almeno hanno una scusa tecnica per essere scemi, ma per la scemenza dei miei coetanei la scienza non ha spiegazioni).

Una settimana fa si discuteva dell’opportunità di annullare il concerto di Springsteen a Ferrara. Non per ragioni di sensibilità (la più fessa delle categorie), ma per motivi pratici: non solo pareva poco opportuno spostare decine di migliaia di persone in una regione devastata, ma per fare il concerto occorreva far tornare a Ferrara le ambulanze che erano state spostate in Romagna a soccorrere gli sfollati.

Poi il concerto si è fatto, giacché evidentemente Bruce non ha amici e nessuno gli ha detto che non era un’ottima idea non rimandarlo. Il concerto si è fatto, e ai fan – che da vent’anni raccontano estasiati della pioggia che presero a San Siro: il fan di Springsteen ha bisogno di sentirsi un eroe della classe operaia, e non avendo autostrade da asfaltare compensa prendendosi acquazzoni – non è parso vero: show a little faith, there’s magic in the night.

Da venerdì non incontro altro che sessantenni che si mettono sulla difensiva se fai notare che insomma, com’è possibile che un cantante così attento alle buone cause abbia avuto così poco senso dell’opportunità e così scarsi consiglieri.

Uno, giuro, mi ha detto «sono stato a concerti di Renato Zero in cui c’era più fango» (ma il punto, pulcino, non è in che condizioni fosse Ferrara, ma il territorio intorno: quello al quale hai tolto le ambulanze per fare i cori su “No surrender”). Un altro era indignato dal fatto che non fosse stata notata la scaletta di canzoni dolenti, che erano chiaramente il modo del poster della nostra infanzia di esprimere vicinanza alle popolazioni colpite (ma il punto, pulcino, non sono le buone intenzioni: non è che quando ci s’interrogava sull’eventualità che Pertini a Vermicino ostacolasse i soccorsi si pensava che lo facesse apposta perché voleva proprio che il bambino nel pozzo morisse).

I giornali di venerdì intervistavano la gente al concerto che, guarda un po’, diceva che era contenta che il concerto non fosse stato annullato. Ma tu pensa. Chi l’avrebbe mai detto.

Peccato non l’abbiano rimandato: sarebbe stato bello vedere la protesta dei sedicenni senili che volevano attraversare torrenti esondati e valli franate per cantare dei glory days che passano in un attimo; sarebbe stato stupendo ascoltarli dire che non potevano tollerare che ancora una volta venissero tolti loro gli spazi per venire dati ai fan di Mengoni.

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