Tengo maninaUn popolo di santi, poeti, navigatori e p.r. del Gilda on the beach

I lavoratori contemporanei sono come le signore di bell’aspetto delle discoteche romane degli anni Novanta: dal Capo dello Stato a chi dovrebbe vendere i libri alle presentazioni, tutti sono esattamente come li vogliamo in quest’epoca, pronti a farci i complimenti e ad autoscattarci

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La principale cosa che scoprii trasferendomi a Roma a quasi diciannove anni furono le discoteche romane. Quelle che in quegli anni diventavano famose perché iniziava l’epoca in cui gli adulti avevano passatempi indistinguibili dai ragazzini e quindi i politici andavano in discoteca. Ma, soprattutto, quelle che non somigliavano per niente alle discoteche di Bologna, di Gabicce, di Riccione: a tutte le discoteche in cui, per tutta l’adolescenza, ero entrata pagando il biglietto.

Nelle discoteche romane c’erano le p.r.: signore di bell’aspetto e di cognomi spesso aristocratici che ti individuavano subito, ragazzotta carina che quella sera eri lì con Tizio a loro noto ma domani chissà, e si prendevano il tuo numero. Volevano fare le amiche, perché fare le amiche era il loro lavoro. Fare le amiche delle ragazzotte carine e riempire la discoteca di carne giovane.

Se pensate che le p.r. delle discoteche romane non c’entrino con la visita di Mattarella in Romagna, o con il Salone del libro di Torino, o in generale con l’Italia del 2023, un posto che fa sembrare il Checco Zalone di “Quo vado?” uno stakanovista, sono qui per farvi cambiare idea.

Quello del presidente della Repubblica è un lavoro simbolico, non operativo, quindi se Mattarella va a visitare la zona d’un disastro viene meno da pensare che potrebbe stare in ufficio a lavorare per i disastrati, invece d’andare a instagrammarsi, di quanto accada se ci va un sindaco o un presidente di regione o un ministro (e non solo perché Mattarella non ha un account Instagram, il che contribuisce a farcelo percepire come adulto, diversamente da tutte le altre figure elencate).

Tuttavia, almeno dai tempi di Pertini a Vermicino, ci s’interrogava sull’opportunità di questo fare presenza: non è che intralcia i soccorsi, i lavori, l’emergenza, non è che sì, grazie del pensiero, ma se ci mandi dei fondi sono più graditi e sensati della tu querida presencia. Ci s’interrogava, imperfetto. Perché poi sono scomparsi i mestieri, le specializzazioni, le specificità.

Da un presidente della Repubblica non ci si aspetta che faccia il suo a distanza: ci si aspetta calore. Ci si aspetta non dico che ci chiami a casa, come la p.r. del Gilda on the beach, ma quasi. Che venga a farsi i selfie. Che ci faccia compilare gli striscioni come andassimo a un concerto (gli stessi che vogliono i cantanti vogliono anche le visite istituzionali: pretendono le p.r., mica la ricostruzione). Che si prenda il gilet giallo con la scritta «Ten bòta» («tieni botta» in dialetto locale, vero regalo veramente consegnato a Mattarella che lo indosserà senza meno alla prima della Scala) in modo che noi abbiamo le case allagate, i mobili infangati e la vita distrutta ma possiamo dire che uno famoso ha un oggetto nostro, come vivessimo in un perpetuo e senile Sposerò Simon Le Bon.

A cosa serve il Salone del libro? Se lo chiedono ogni anno scrittori devastati dalla fatica di fare centomila incontri per vendere dodici copie, giurando sulla terra di Tara che mai più prenderanno questa fregatura, e poi tornandoci l’anno dopo con meccanismo di rimozione del dolore e della fatica simile a quello raccontato dalle donne che hanno partorito.

Servono a far capire che l’unico lavoro rimasto è quello di p.r. del Gilda on the beach. Vai a fare un incontro, sfoggi tutta la tua brillantezza su un palco, alla fine i potenziali lettori ti vengono incontro e ti dicono che comprerebbero pure il tuo libro, ma sul tavolo fuori dall’incontro non ci sono le copie.

Qualcuno della casa editrice avrebbe dovuto portarcele, ma non l’ha fatto. In compenso ci sono, sedute in platea, ottantasette persone della casa editrice pronte a dirti che sei un genio, un talento, una performer, un’entertainer, la figlia naturale di Alessandro Baricco e Heather Parisi, come te nessuna mai.

Ottantasette p.r. del Gilda on the beach che non servono a vendere i libri ma sono indispensabili in un tempo in cui avere chi ti tenga la manina è più importante che vendere i libri, più importante che avere i fondi per evitare i dissesti idrogeologici, più importante di tutto. Se ti viene da chiederti «ma è del mestiere, questa?», è perché non hai capito che l’ultimo mestiere rimasto è quello che sta facendo la persona che pensavi dovesse distribuire i libri o non far esondare i torrenti: le p.r. al Gilda on the beach.

Il dentista che non trova posto per riceverti ma ti manda gli auguri di Natale è un p.r. del Gilda on the beach. Il traslocatore che ti rompe tutti i bicchieri ma ti manda una poesia per la festa della donna è un p.r. del Gilda on the beach. Cortilia che ti manda una cassetta in cui alla tua spesa sono mescolati detriti e cocci di bottiglia che neanche a Beirut, ci mette sei mesi e diverse minacce a rimborsarti, epperò come apri Instagram c’è qualche influencer retribuito e pronto a dire che spesa deliziosa consegni: anche lì tutte chiacchiere, distintivo, e Gilda on the beach.

L’altra sera a Milano c’era il concerto di Lewis Capaldi, cantautore scozzese di cui non ho mai sentito una canzone ma ho visto una locandina promozionale illuminante in una stazione inglese. C’è lui in ginocchio, e la scritta: «Quindici milioni di album venduti, trentasette miliardi di streaming, e sono ancora qui a implorare la vostra attenzione. Patetico». Lewis, ti capisco: qual è la misura del successo, quella dopo la quale ci si può liberare delle p.r. del Gilda on the beach?

Gli studenti che a Forlì accolgono Mattarella con la scritta «La sua presenza x noi è una carezza al <3» probabilmente hanno le aule allagate, e quindi non si può neanche dir loro di tornare a studiare e imparare a scrivere per esteso «per» e «cuore». Sono pure riusciti nell’audace impresa di formulare la frase in terza persona, che per un minorenne di questo secolo corrisponde allo sforzo che per noi era costituito dal leggere Joyce in originale. Sarebbe scortese dir loro che è più utile vadano a spalare, e poi probabilmente sono i figli di quelli che vanno sull’Instagram dei cantanti a dir loro che quel che ci vuole in un territorio disastrato è proprio un concerto.

Ho pensato per anni che i politici fossero esibizionisti, smaniosi, vanesi figuri che pensavano solo a orientare la telecamera del telefono. E non è che non lo siano, ma siamo noi che li vogliamo così. Noi che, nei momenti in cui nel secolo scorso ci si sarebbe chiesti «dov’è lo Stato?», vogliamo che lo Stato sia qui, pronto ad autoscattarsi assieme a noi, come una brava p.r. con lo shatoush ai capelli e il semipermanente alle unghie.

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