Il terribile attentato terroristico del Cremlino a Kramatorsk di martedì sera – si scava ancora tra le macerie ma i morti accertati sono undici e moltissimi i feriti – è il peggior “saluto” che Vladimir Putin potesse riservare al presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, giunto due giorni fa a Mosca. Le melliflue parole di benvenuto del Cremlino non incantano nessuno. Contano i fatti. E i fatti sono che Zuppi non incontrerà Sergey Lavrov né tantomeno Putin – non c’è nessuna simmetria con la precedente missione a Kyjiv dove poté incontrare il presidente Volodymyr Zelensky – ma si è dovuto accontentare di un incontro con il consigliere per la politica estera del Cremlino, Yuri Ushakov, politico esperto ma non è esattamente la stessa cosa.
Difficile dunque che da questo faccia a faccia sia derivata qualche novità. E d’altronde l’inviato di Papa Francesco non può fare miracoli. Non aiuta la sua missione la situazione che si è creata in Russia dopo il tentato golpe del capo della Wagner, Yevgheny Prighozin, e il conseguente clima di terrore che circola al Cremlino: i due missili terra-aria che hanno causato la strage al ristorante di Kramatorsk indicano nella loro tragica chiarezza che Putin non ha intenzione di cambiare la sua politica terroristica e di guerra.
Per questo è probabile che il cardinale Zuppi punti molto di più sul versante ecumenico della sua visita, che forse è l’aspetto prevalente della missione dell’arcivescovo di Bologna, nella speranza che l’incontro con il patriarca ortodosso Kirill, grande sostenitore dello Zar del Cremlino, possa favorire non solo un riavvicinamento tra le due Chiese ma soprattutto una qualche forma di intercessione “politica” del patriarca nei confronti del Cremlino, e, accanto a questo, rendere possibile la soluzione del dramma dei bambini ucraini deportati in Russia.
In questo quadro Zuppi potrebbe anche incontrare Maria Aleksejevna Lvova-Belova, peraltro ricercata come Putin per crimini di guerra, che è la commissaria per i diritti dei bambini del Cremlino. Già risolvere questa questione dal forte impatto umanitario sarebbe un buon successo per il Vaticano.
Ma è sulla politica che tutto sembra fermo. A sedici mesi dall’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, decine di tentativi di mediazione sono tutti naufragati. E anche l’idea che Putin possa venire a più miti consigli dopo l’attacco fallito di Prighozin sembra utopistica, almeno per il momento.
La strage di Kramatorsk dimostra che continuano a parlare le armi. Malgrado tutte le difficoltà è perciò molto importante che i governi occidentali stiamo mantenendo ferma la barra, infatti oggi e domani il Consiglio Europeo (in videoconferenza anche Zelensky) confermerà il completo appoggio a Kyjiv fino a quando sarà necessario.
E ieri in Parlamento Giorgia Meloni ha riaffermato la posizione del governo italiano: «Se non avessimo aiutato gli ucraini, come anche qualcuno in quest’Aula suggerisce, ci troveremmo in un mondo in cui alla forza del diritto si sostituisce il diritto del più forte, un mondo senza regole se non quella delle armi».
Una frase netta in un discorso peraltro molto nervoso e davvero poco “parlamentare”. E ha colpito diversi deputati del Partito democratico il fatto che in Aula non ci fosse la segretaria, impegnata in una tre-giorni a Bruxelles: «Non è possibile che quando parla Giorgia Meloni in aula non ci sia Elly, toccava a lei intervenire», è la critica che è corsa in Transatlantico. Ma gli incontri a Bruxelles – hanno fatto sapere dal Partito democratico – erano irrinunciabili.