Il ceto CarlottaI teppistelli, il rusco e le patologie della psiche collettiva di Bologna

Questo non è un articolo, ma un verbale che girerò al Giudice di pace quando il Comune “che tremare il mondo fa” mi multerà a causa dei cassonetti che non funzionano. Ma io so e, a differenza di Pasolini, ho le prove

Lapresse

Questo non è un articolo, perché se fosse un articolo sarebbe il quattrocentesimo articolo su come Bologna sia una città governata da un paio di patologie della psiche collettiva, il cui incastro origina un pensiero magico per cui gente che abita in un posto gestito come Beirut è convinta di vivere sotto Lorenzo il Magnifico.

Questo, poiché sappiamo tutti che io non sono per niente ripetitiva, non è il mio quattrocentesimo articolo sulla spazzatura (in bolognese: rusco) locale come metafora di un po’ tutto. Questo è un verbale.

Pare che a Bologna ci siano le baby gang, come le chiamano quelli che hanno fatto inglese alle medie. I loro genitori, che avevano ancora abbastanza confidenza con l’italiano da mescolarlo coi gerghi locali invece che col doppiaggese, avrebbero detto: ci son dei cinni che fanno i teppisti.

Pare che questi cinni, come a Bologna vengono chiamati i ragazzini, imperversino soprattutto in via D’Azeglio, che è una strada che parte da piazza Maggiore (più precisamente: da casa di quella che era la mia prof di pianoforte), passa per casa di Lucio Dalla, prosegue per la scuola privata dalla quale siamo prima o poi passati tutti noi ciucci benestanti, arriva al ristorante preferito dai cantanti locali, e finisce sui viali.

Poiché non esiste la cronaca ma esistono le lealtà delle percezioni politiche, e poiché Bologna è governata da una giunta percepita di sinistra, questi teppistelli li racconta il Resto del Carlino, quotidiano percepito di destra. Che va a parlare coi commercianti, i quali si lamentano di quest’arancia meccanica in sessantaquattresimo: ragazzini che entrano al bar e col coltello ma rubano tre bibite invece che l’incasso.

Una legge e pensa: beh, l’efficienza della piccola criminalità rispecchia sempre l’efficienza del luogo in cui essa opera. Bologna fa sembrare Roma una città fondata sul lavoro, ed è quindi giusto che anche i ladri siano troppo sfaccendati per rubare davvero.

Tra le intervistate dal Carlino c’è anche la signora Carlotta (forse il più bolognese dei nomi della mia generazione), che in via D’Azeglio ha una boutique, e dice che insomma, son più fastidiosi che pericolosi, le rubano i fiori che mette fuori dal negozio, e che lei «nel dubbio» ad agosto si chiudeva dentro al negozio.

Il giorno dopo, la signora Carlotta fa un video su Instagram essendo stata assalita da due sindromi. Quella, universale, del commerciante: se dici che il tuo negozio è assediato dai teppisti, non è che il tuo portico poi si spopola e nessuno più viene a fare acquisti da te, specie ora che manca poco alla temibile stagione in cui fa buio alle quattro? «Volevo rassicurarvi, potete venire a trovarci, via D’Azeglio resta una bellissima strada».

E quella, locale, del cittadino che deve farsi carico di tutto ciò che non fanno le istituzioni, mica lamentarsi perché paga le tasse e le istituzioni con quei soldi dovrebbero fare il loro dovere (che orrore: che riflesso di destra, nonché milanese, lavoro-pago-pretendo). E quindi la signora Carlotta fa quel che fanno da sempre quelli che non hanno il coraggio delle loro parole: dice che il Carlino ha preso una frase ma lei aveva fatto «un discorso ampio» (incredibile che non abbiano pubblicato il monologo integrale della signora Carlotta, con tanto di glosse).

Dettaglio buffo: essendo Bologna ferma al 1982, non ha un’idea neanche vaga delle modalità lessicali della sinistra contemporanea; la signora Carlotta dice «fiori dei cinesi», e poi trasecola perché qualcuno interviene a giudicare razzista questa definizione al ribasso.

Il fatto è che i teppisti pare siano ospiti di un centro per minori non accompagnati, e il ceto-Carlotta teme d’essere percepito non solidale assai più di quanto tema la rapina: «Sono degli atti di ragazzi che magari entrano dentro delle problematiche socioculturali che forse più che con la polizia vanno risolte anche con una rete di solidarietà sociale e di assistenza», dice la signora Carlotta sembrando la cugina bolognese di Verdone sempre teso al rinnovamento, e prontamente ripostata dal sindaco il cui lavoro principale è ripetere in spregio a ogni evidenza fattuale che la sua è una città accogliente e vivibile e sarcazzo, la più accogliente e vivibile e sarcazzo d’Europa.

Cosa c’entra tutto questo col rusco?, diranno i miei piccoli lettori. C’entra, perché alle tre di pomeriggio del 27 settembre, in una piazza bolognese di cui non farò il nome sennò la prossima volta ci trovo qualche Carlotta furibonda ad attendermi, ho provato a buttare la spazzatura nella finestrella solo per solutori abili che si apre con la carta smeraldo, una psicopatologia locale per la quale i cassonetti non possono aprirli i fuorisede (ideale, in una città universitaria).

Ero davvero fiera di me e d’aver composto un sacchetto sufficientemente piccolo da entrare nella finestrella (il ceto-Carlotta è entusiasta che gli siano richieste capriole e acrostici per buttare il rusco: se non si sbatte tantissimo per fare cose che dovrebbe fare quel comune cui paga apposita tassa, non si percepisce di sinistra; se al bolognese dici che a Milano, con tassa di pari entità, la spazzatura vengono a prendertela a casa in quantità a piacere, esso va in tilt come l’intelligenza artificiale davanti alle anomalie).

Ero anche gongolante perché il lettore della carta smeraldo aveva funzionato (accade una volta su venti), e la finestrella si era aperta. Ci ho infilato il mio bravo sacchetto, e ho fatto per pigiare il pedale per richiuderla e correre verso il mio impegno. Ma il pedale era rotto: la finestrella non si richiudeva.

A quel punto il ceto-Carlotta avrebbe provveduto a inginocchiarsi in mezzo allo schifo e riparare il pedale, o a cercare un altro cassonetto in zona, o altra perdita di tempo ed energie che prevede che uno sia ricco di famiglia e non debba andare a lavorare. Io ho lasciato il mio sacchetto lì, nella finestrella aperta, pensando: come minimo mi faranno la multa.

Loro a me, invece di chiedere io a loro che mi restituiscano i soldi della tassa sulla spazzatura, spazzatura che circondava il cassonetto come ogni cassonetto bolognese (Fatima è niente e Ustica nientissimo, in confronto al mistero di: ma com’è possibile che nel centro di Bologna non grufolino i cinghiali?).

Ricordo perfettamente la sera, un paio d’anni fa, in cui un’esponente del ceto-Carlotta mi spiegò che lei girava con in borsa i guantini di plastica per ripulire ciò che vedeva fuori posto, sacchetti della spazzatura, cacche di cane: tutto ciò per pulire il quale pagava una vana tassa al comune.

Ricordo perfettamente il mio spavento nel constatare che il ceto dei netturbini volontari mai avrebbe preteso un’efficienza minima dalla propria amministrazione locale, e sempre si sarebbe ridotto come quei genitori che comprano il cane a figli che promettono che lo porteranno giù loro, e poi borbottando passano la vita a portar giù un cane di cui i figli si disinteressano e che loro neppure volevano.

Ricordo la sera in cui vidi per la prima volta la patologia della psiche collettiva che regge Bologna, una città che invece d’un’amministrazione comunale ha una codipendenza psichiatrica, e ricordo anche le multe che ti arrivano quando molli lì il sacchetto in un cassonetto inservibile, e per l’utilizzo del quale hai pagato apposita tassa.

In questo caso, di fianco c’era un secchio del vetro, anche quello con pedale rotto, circondato da bottiglie vuote. Quando sono ripassata alle quattro e mezza, quello del vetro era ancora rotto, l’altro apparentemente era stato disincastrato, vai a sapere se da un professionista o da qualcuno del ceto-Carlotta.

Questa paginetta serve quindi per mettere a verbale che io il 27 di settembre il sacchetto l’ho infilato nel buco giusto, e mica è colpa mia se il buco s’è rifiutato d’ingoiarlo. Quando tra qualche mese mi arriverà una multa – giacché, quando ti danno la carta smeraldo, ti spiegano minacciosi che loro sanno se sei stata tu l’ultima ad aprire la finestrella – e quella multa pretenderà ch’io compili un verbale per ricorrere al giudice di pace, come fossi una sfaccendata bolognese con intere giornate libere, ecco, quel giorno io allegherò questa paginetta al mio ricorso.

Ho anche le foto, dei pedali rotti e del rusco che circonda i cassonetti. Se i cassonetti non avessero le finestrelle selettive, sembrerebbero foto di monnezza romana. Scusaci, Gualtieri: non so perché la reputazione del porcile mal governato debba accollartela tutta tu; probabilmente è perché hai fatto l’errore di non nascere in mezzo al ceto-Carlotta.

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