Negli anni Ottanta andavo al cinema tutti i giorni o quasi. Mica era un vezzo mio: tutti andavano al cinema abitualmente, perché i telefoni si usavano per telefonare e il cinema era il grande intrattenimento popolare. Poi noi ragazzine stronze di Bologna andavamo al Lumière a vedere Fassbinder, e a Crotone saranno andati a vedere “Rocky”, ma insomma: si andava al cinema.
Negli anni Novanta andavo al festival di Venezia, il che significava, per una decina di giorni, vedere cinque film al giorno. Che non è come vedere dieci puntate di una serie sul telefono senza alzarsi dal letto: sono dieci ore di concentrazione, senza rewind, con gli sconosciuti attorno, cinque storie diverse di cui ricordarsi i personaggi e gli svincoli.
Poi è arrivato, oltre al mio invecchiamento, il ribasso dell’attenzione di questo secolo. Il 2023 è stato, rispetto alle abitudini dell’ultimo decennio, un anno per me d’alta frequenza del cinema in sala: ci sono andata cinque volte. (Nel 2022 due volte: più che raddoppiato, accipicchia).
La prima volta in primavera, a vedere un film italiano di cui mi avevano parlato talmente bene che non solo mi sono decisa ad alzarmi dal divano, ma ho convinto un’amica ad accompagnarmi. Per tutta la durata del film, mentre ero incredula rispetto alla porcheria che stavo vedendo, ogni tanto con la coda dell’occhio intercettavo lo sguardo «dove diavolo mi hai portato» che mi rivolgeva l’amica. Le ho offerto la cena per scusarmi.
La volta successiva sono andata a vedere “Mission: Impossible”, un marchio di cui sono piccola fan, Ethan Hunt non mi ha mai deluso e quindi sono uscita dal cinema molto soddisfatta. La terza e la quarta volta sono stati i film di Nanni Moretti e di Woody Allen, cioè di due che hanno un tale spazio nel mio lessico famigliare che non farò finta di poterne dare valutazioni oggettive.
L’ultima volta è stata mercoledì scorso. Tutti dicevano meraviglie del nuovo Poirot di Kenneth Branagh, e a me non erano piaciuti né “Assassinio sul Nilo” né “Assassinio sull’Orient-Express”, ma ho pensato che questo “Assassinio a Venezia” potesse avere il vantaggio della mancanza di precedenti: il rifacimento del film in cui Ingrid Bergman «non pronuncia bene parole come “vestaglia” ma capisce “emolumento”» è potabile solo per il pubblico senza memoria di questo secolo.
Per un’ora e quaranta (dio o chi per lui benedica chi riesce ancora a fare cose sotto le due ore, in questo tempo sbandato in cui se non ci metti dieci puntate a raccontarmi cos’hai sognato ieri notte ti sembra di non aver fatto il tuo dovere) mi sono agitata sulla poltrona, ho pensato ma come mi è venuto in mente, che angoscia tutta ’sta Venezia con la pioggia, che noia questo giallo in cui non si capisce niente, cheppalle questo buio perpetuo.
Poi, all’uscita, mi sono chiesta se non c’entrasse la straordinarietà. Probabilmente, visto in un secolo in cui ero abituata ad andare al cinema, “Assassinio a Venezia” mi sarebbe parso un film qualunque, inutile e dimenticabile ma neanche particolarmente orrendo, come ne vedevo mille altri quando andare al cinema era un passatempo ordinario e stare intorno all’ora e mezza già mi ti faceva ben volere.
Adesso, che è assai più normale prendere un aereo che comprare un biglietto per una sala cinematografica, se non è sommo capolavoro è subito porcheria, se non è film del secolo mi sento offesa e truffata: e tu mi hai fatto uscire di casa per questo?
Temo c’entri anche il fatto che era mercoledì, e quindi il biglietto costasse tre euro e mezzo: se andare al cinema fosse un investimento economico, se costasse le due settimane di paghetta che ci costava un disco quarant’anni fa, allora interverrebbe la regola dei concerti.
La regola dei concerti me la spiegò un cantante molti anni fa: nessuno che abbia comprato un biglietto è mai stato a un brutto concerto. Nessuno vuole sentirsi un coglione ammettendo d’aver speso ottanta euro per passare una brutta serata.
Che i concerti siano pieni e i cinema vuoti dipende perlopiù da quella invenzione lessicale da 41 bis che è «esperienza»: la gente paga per le cose cui può partecipare instagrammandosi, siano concerti, aperitivi, trenini su “Last Christmas”. Mi hanno raccontato che a Bologna c’è un locale di karaoke dove, se non prenoti settimane prima, non trovi posto, e io ho pensato che il mondo come lo conoscevo è proprio finito (e meno male, perché se l’umanità non si fosse rincoglionita non avremmo mai avuto quella scena stupenda di “Succession” in cui Conor, non avendo il catalogo del locale disponibile “Desperado”, fa il karaoke di “Famous Blue Raincoat”).
Se non è «esperienza», è «evento»: certo che la gente al cinema ci è andata come fosse ancora il secolo scorso per “Barbie” e per “Oppenheimer”, perché “Barbie” e “Oppenheimer” sono stati per il pubblico di quest’anno quel che “Beautiful” fu per la me di quinta liceo. Non volevo guardarlo, ma meno ancora volevo sentirmi esclusa dalle conversazioni all’intervallo, e quindi mi arresi.
Dipende da «esperienza», dipende da «evento», dipende anche dal fatto che i consumi culturali ordinari costano troppo poco. Il biglietto del cinema a undici euro è percepito troppo da un’epoca non abituata più a pagare le cose da leggere o vedere o ascoltare, pochi euro sembrano troppi persino per avere per un mese tutti i film del mondo sul telefono; e infatti, quando Netflix ha cercato di limitare la condivisione delle password (cioè: il fatto che, coi diciotto euro dell’abbonamento visibile a più persone in contemporanea, il suo intero catalogo lo guardino in quattrocento parenti e amici e conoscenti), gli abitanti di questo secolo si sono sentiti vessati e pronti a prendere la Bastiglia (poi non l’hanno presa perché non sono abituati ad alzarsi dal divano).
Tutto costa troppo poco e infatti, come ho già scritto un milione di volte, sono finiti i soldi: servizi e beni che paghiamo poco sono servizi e beni fatti con meno soldi, e che perciò tendenzialmente fanno schifo. Escono nuove serie televisive ogni settimana, e sono perlopiù orrende, tanto se non facciamo l’immane sforzo d’alzarci dal letto per guardarle ce ne accorgiamo meno. È ovvio, ed è una tendenza contro la quale conviene scioperare solo a quelli molto bravi: per quelli scarsi, la situazione attuale è l’unico modo di fare lavori che altrimenti li respingerebbero all’ingresso.
E quindi, alla fine dello sciopero concluso con un accordo domenica, gli sceneggiatori americani gongolano per aver ottenuto più diritti dai produttori, che però mica sono enti di beneficenza, e quindi avvieranno meno produzioni per non spendere più di ora.
Capolavoro: hanno spacciato per battaglia sindacale una trattativa al termine della quale lavoreranno (guadagnando un po’ di più) i forti, quelli che avrebbero lavorato anche senza scioperi; e torneranno a fare i camerieri i deboli, quelli abbastanza medi da avere un’opportunità solo nella bolla madoffiana che avevano creato le piattaforme sovraproducendo. Chissà se non l’avevano capito che finiva così, chissà se i laureati in materie umanistiche sono davvero così scarsi in matematica.
Una volta, frignano lo sceneggiatore medio o il giornalista medio o il romanziere medio, sarei stato Pansa o la Fallaci, e nessuno è così crudele da dir loro che non è vero. Le ragioni per cui una volta in certi settori si guadagnava dieci volte quello che si guadagna ora, caro compare di recessione, sono due.
Una è che c’era molta più selezione all’ingresso. Siamo sicuri che il talento che ci basta adesso per entrare in settori sovraffollati a basso reddito sia lo stesso con cui avremmo potuto scrivere per Fellini? Siamo sicuri che essere pubblicati da Repetti o dalla Ginzburg abbia lo stesso valore (culturale e di mercato)?
L’altra è che, quando ci pagavano di più, vivere costava di più, e così si mettevano in circolo soldi con cui pagare opere e servizi migliori. Pagavamo prezzi non simbolici per i biglietti del cinema, i dischi, i giornali, persino gli aerei.
Eravamo disposti a sacrifici oggi impensabili: un amico mi ricordava di quando venticinque anni fa gli chiesi di comprarmi a Londra il vhs di “Quattro matrimoni e un funerale” per vederlo non doppiato, ed è inconcepibile oggi, nell’era della soddisfazione immediata e gratuita di ogni desiderio culturale, che fosse così macchinoso vedere un film nella lingua che volevi.
Oggi che dovrei vedere “Kill Bill” e la scoperta che non stia su nessuna piattaforma m’indigna: come sarebbe se lo voglio devo comprarlo, che abuso è mai questo, chiamo Amnesty. Vivo in questo secolo, sono ormai abituata anch’io a tutto e subito e gratis e senza alzarmi dal divano. Ma almeno cerco di rendermi conto che il fatto che faccia tutto un po’ schifo forse è anche il risultato della nostra indisponibilità a pagare prezzi che non siano simbolici: può il biglietto d’un film per produrre il quale si sono spese decine di milioni di dollari costare meno d’uno spritz?
Mentre io sospetto che Branagh non mi sia piaciuto perché ho pagato solo tre euro e mezzo, sull’internet c’è gente che dice che non va al cinema perché undici euro sono una cifra altissima e inaccettabile, e lo scrive da telefoni da mille euro, nel modello comprato il giorno d’uscita perché ha una fotocamera più sofisticata per instagrammare meglio la birra media che costa quanto un biglietto del cinema.
È giusto così – ognuno i soldi suoi li impiega come vuole – epperò i risultati questi sono. Certo che viaggiare col Concorde era meglio che viaggiare con Ryan Air, ma siamo disposti a rinunciare all’illusione di poter volare a Londra coi soldi che ci costano due pizze? Siamo disposti a rinunciare al capitalismo dell’illusione, e a pagare l’aereo per New York più del taxi dall’aeroporto?