Il 24.02.2022 ci hanno tolto un braccio e una gamba. Il dolore è stato atroce, quasi insopportabile. Ci sono voluti mesi per fermare l’emorragia, poi altri mesi per far chiudere la ferita. Di notte ci svegliavamo per fantomatici dolori per un braccio o una gamba mancanti, sembrava di averli ancora, sembrava di sentirli aggrappare allo schienale del letto o camminare a piedi nudi nel prato. Il piede sinistro forse lo avrebbe potuto ancora fare, ma la realtà del letto è diversa da un prato verde. Sono passati altri mesi e in un modo o nell’altro siamo arrivati alla fisioterapia, abbiamo dovuto imparare a camminare con un piede solo e a mangiare con un braccio solo. Ci sono stati dei momenti di rabbia e a volte anche momenti buffi in quella palestra, dove eravamo tutti mutilati. E poi il ritorno a casa dove tutto era così familiare, ma per un corpo monco anche piuttosto ostile. Mesi e mesi di lavoro per trovare il modo di convivere con questo nuovo stato: finalmente, da qualche settimana ci si riesce a muovere con fiducia. La mente ripercorre la parola “abituarsi” e la vuole cacciare via subito, perché ci si può abituare a tutto, ma è comunque una vita senza una gamba e senza un braccio.
Ho fatto questa lunga premessa cercando di descrivere attraverso il disagio fisico che cosa provano gli ucraini a vivere con la guerra addosso. Sono quasi due anni che viviamo mutilati, senza case, senza persone care, senza gambe e senza braccia, con le sirene, con le esplosioni, con il lavoro che cerchiamo di riavviare in qualche modo, con le scuole nei rifugi antiaerei o a distanza per i bambini sfollati che in qualche modo cercano di mantenere un legame con il sistema scolastico ucraino.
«Io ero felice in Ucraina, avevo tutto, in lavoro che mi piaceva, uno stipendio, la mia famiglia e la mia città», mi dice una parrucchiera ucraina a Wroclaw, la città polacca dove mi trovo temporaneamente. «Ora nella mia città che dà sul mare di Azov ci sono i russi, e gli ucraini sono quasi scappati tutti. A quelli rimasti distribuiscono passaporti russi senza i quali non si può far niente e ora stanno costruendo anche la ferrovia per collegare il mar d’Azov con il Rostov. Sono andata via e sono dovuta reinventarmi costruendo una nuova attività qui».
Niente di quello che volevamo è andato come volevamo, ma ci siamo dovuti adattare e reinventarci, abbiamo dovuto imparare a camminare monchi e mutilati.
Un recente articolo del New York Times dice che gli ucraini sono diventati più pessimisti, mostra qualche dato sul calo del consenso al governo, che però rimane ancora molto alto, cita persone che sono consapevoli che la guerra si protrarrà ancora per uno, due, tre anni.
La settimana scorsa siamo stati investiti da una valanga delle notizie: un articolo su Time sulla lotta solitaria di Zelensky, un articolo sull’Economist con il generale delle forze armate dell’Ucraina Valeriy Zaluzhnyy che parla dei ritardi nella consegna delle armi occidentali e di altri vari fattori che limitano la guerra a una guerra di posizione nelle trincee.
Intorno a noi tutti dicono che ci siamo abituati alla guerra e che siamo stanchi della guerra, anche Giorgia Meloni nella famigerata operazione organizzata dall’Fsb russo mascherata da scherzo telefonico. Zelensky risponde durante la conferenza stampa con Ursula von der Leyen che, sì, l’attenzione mediatica sull’Ucraina è calata, soprattutto dopo gli eventi in Medio Oriente, ma che ce la faremo anche questa volta.
Dopo quasi due anni siamo davvero abituati a convivere con la guerra? Non solo gli occidentali che volte non fanno nemmeno più caso ai passaporti blu con il tridente e a tutte le storie che si nascondono dietro le copertine di quei passaporti, ma anche noi ucraini ci siamo abituati? La parola giusta è abituarsi o è un’altra? Dopo che da due anni ogni giorno ricevi notizie tristi sulla morte di persone che conosci o di persone che conoscono i tuoi amici, che vedi con i tuoi occhi o nei video le macerie del tuo paese, le lacrime non scendono più, la rabbia non scatta più, fai solo quello che facevi ogni giorno dal 24.02.2022, ma in silenzio per ridistribuire le forze ormai a brandelli.
Ma questa condizione davvero corrisponde all’abituarsi alla guerra? O è proprio come camminare senza una gamba e senza un braccio? In qualche modo ce la si fa, ma è pur sempre camminare senza una gamba e senza un braccio. Al massimo ci saranno le protesi a sostituire gli estremi persi, una soluzione che ha trovato anche la mia parrucchiera aprendo una nuova attività in Polonia, ma la sua gamba e il suo braccio sono rimasti in Ucraina in quel periodo pre 24.02.2022.
Sono diventata pessimista anche io come i personaggi dell’articolo di New York Times? Apro Instagram e in ogni storia vedo i miei amici che fanno una raccolta fondi per qualcuno che conoscono direttamente al fronte, faccio la mia donazione quotidiana e penso alle parole di Zelensky: «Ce la faremo anche questa volta». E il posto per il pessimismo scompare.