Stiamo come stiamoCom’è andata la Fashion week parigina, tra nuove idee e i soliti (annosi) dilemmi

Da Vaccarello a Demna, passando dallo show senza smartphone di The Row, gli italiani di belle speranze e i debutti di Chemena Kamali (Chloé) e Sean McGirr (Alexander McQueen). Lente d’ingrandimento sulla kermesse della capitale francese, dove la moda – per l’ennesima volta – si è scontrata con i temi complessi della contemporaneità

Courtesy of Saint Laurent

Attenersi alla realtà o creare fantasie sulle quali monetizzare? Apparire o nascondersi? Reinventarsi o spolverare una precedente versione di se stessi che si è sicuri piacerà ai nostalgici più reazionari? Nodi complessi, quelli che la Paris Fashion week relativa all’autunno-inverno 2024-2025 ha tentato di sciogliere durante i dieci giorni della kermesse, dando delle risposte diverse, ma ugualmente non risolutive, rispetto a quanto avvenuto sulle passerelle di Milano, dove incombevano più o meno gli stessi interrogativi. Quesiti transnazionali che più di un singolo sistema sembrano essere figli dei nostri tempi complessi: tempi con i quali la moda deve obbligatoriamente confrontarsi, seppur di malavoglia. 

Cosa vogliono, chi sono le donne di oggi, e quali sono le loro priorità, se lo chiede anche chi scrive, muovendosi sui tram di una Parigi piovosa che negli stessi giorni sta però festeggiando l’approvazione dell’aborto come diritto costituzionale, riunendosi sotto una Tour Eiffel illuminata con la scritta “Mio il corpo, mia la scelta”. Il corpo delle donne è in effetti al centro dell’agone politico – più di quanto non lo sia mai stato – e la possibilità/libertà di “indossarlo” con la consapevolezza delle nuove battaglie alle quali la civiltà moderna tutta è chiamata, mette in una prospettiva diversa lo show di Saint Laurent. 

Anthony Vaccarello ha vaticinato di donne sensuali che camminano su Quai e rue con vestiti trasparenti nel nylon delle calze, un’idea che ha ripetuto ossessivamente con leggere variazioni, come i jabot delle camicie o gli scolli all’americana per tutte le quarantotto uscite (a completarli ci sono eco-pellicce, suit maschili, un cappotto in pelle lucida in tre versioni differenti). Una modalità di creazione, quella che esamina un unico tema, facendolo deflagrare simbolicamente sulla passerella, alla quale il designer francese è avvezzo. Nel recente passato c’è stata l’elegia della sahariana (primavera-estate 2024) o quella dei vestiti body-conscious epigoni del lavoro sul corpo della coreografa Martha Graham (primavera-estate 2023). 

Courtesy of Saint Laurent

L’esecuzione però ha fatto tuonare la fashion director del New York Times, Vanessa Friedman, più o meno “Tette, tette ovunque” (la recensione del 28 febbraio andava sotto il titolo “Breast, breast everywhere”: non sarà che dietro tutte queste trasparenze, sostiene Friedman, non ci sia in fondo una ritrita provocazione venata di una certa misoginia? Ragionare sui corpi, in fondo, auscultando i battiti e i sospiri di quelle donne che si vuole vestire, non può limitarsi, pigramente, a ricoprirli di un velo fine e inconsistente di provocazione erotica, che poteva risultare avanguardista quando negli anni Sessanta il fondatore Yves si inventò il nude dress

Vaccarello può però contare sulla fascinazione costante che è stato capace di costruire negli anni, su quella desiderabilità – narcisistica, ma pur sempre desiderabilità – della quale ha ammantato le sue collezioni, popolate da donne che più che reali esseri umani assomigliano a creature immaginifiche e inesistenti in questa dimensione spazio-temporale, archetipi di estrema seduzione, nei quali i confini tra oggetto e soggetto sono volutamente annebbiati, forse per evitare il compito complesso di ragionare con un presente che appare invece sempre più polarizzante. 

In fondo, quegli abiti in nylon arriveranno in negozio probabilmente doppiati con altri tessuti, e quella scia di profumo che le sue donne sembrano lasciare al loro passaggio (l’Opium, fragranza del brand a base di mirra, vaniglia e patchouli e diffuso per tutta la location) condurrà le clienti fino in boutique, dove sublimeranno quelle ambizioni con oggetti più pratici, scarpe e borse, accessori e piccola pelletteria sulla quale si costruisce ogni business di successo che si rispetti.

A rispondere con maggiore complessità allo stesso quesito sono stati invece Dries Van Noten e Jun Takahashi da Undercover. Se il primo ha intitolato lo show “La donna che osa tagliarsi la frangia”, il giapponese ha usato la voce di Wim Wenders in sottofondo per raccontare chi è la donna complessa e stratificata la cui immagine – e il conseguente armadio – è andato in scena durante la sua sfilata. Le frasi, scritte e interpretate dallo stesso Wenders, arrivano in un momento nel quale il regista è considerato il vate della poesia del quotidiano, per via dell’elegia di una vita come tante, quella di un addetto alla pulizia dei bagni pubblici del suo Perfect Days.

«Come sempre, si alza prima che la sveglia suoni. Come sempre, si guarda allo specchio. Sì, è lei: quarant’anni, single, un figlio, un lavoro». Un ritratto che nella sua precisione delinea un femmineo spesso dimenticato da passerelle che corrono dietro a degli stereotipi, e il cui armadio si costruisce su livelli di tessuti quotidiani mescolati a consistenze più preziose, così come nella vita di tutti i giorni si mescolano speranze ed esigenze, aspirazioni e doveri: la t-shirt bianca si allunga, si fonde con il tessuto dei jeans slavati dai troppi usi; i maglioni over hanno strascichi luccicanti, gli anorak hanno veli che sembrano nuziali. 

«Volevo illuminare l’importanza della vita quotidiana», ha spiegato succinto Takahashi, incapsulando in una collezione le infinite velleità di una donna, e come si scontrano o si incontrano con le necessità prosaiche delle vite reali, e non immaginate. Un compito al quale si è sottoposto anche Dries Van Noten, in una sfilata anticipata da un invito con una ciocca di capelli (probabilmente la frangia del titolo della collezione). La sua attenzione eclettica al colore e alle stampe è mediata da invasioni di campo inaspettate: quelle dei pantaloni della tuta, gli stessi che – secondo Karl Lagerfeld – se indossati sancivano la definitiva «perdita di controllo sulla propria vita» e quindi, in sostanza, una sconfitta. 

Difficile però considerare una sconfitta questa collezione, che mescola pantaloni sportivi a t-shirt indossate sotto crop top sui quali si riversano cascate di strass, forniti di strascico, oppure di essenziali cappotti cammello con le maniche in denim e dei blazer infiocchettati con una stampa a maxi pois. Una dimostrazione che un guardaroba dai risvolti pratici, nel quale il prodotto ha una sua funzione alla quale risponde – proteggere dal freddo o dalla pioggia, partecipare a un cocktail o alla riunione scolastica dei figli – non deve necessariamente esser privo di sogni o ambizioni. 

Ph. Filippo Fior (Courtesy of Hermès)

Esperimenti di equilibrismo che forse sono facilitati da business dai volumi imparagonabili a quelli dei grandi conglomerati, come lo sono quelli di Van Noten e Takahashi. Seppure a un livello diverso, quello di Hermès: la direttrice creativa Nadège Vanhee-Cybulski, alla guida del brand da quasi dieci anni, è capace di mettere l’heritage di un marchio – che, tra le altre cose, è stato il primo a importare in Europa il brevetto delle zip e a usarlo per le borse, già cent’anni fa – al servizio di un guardaroba che si rinnova, rimanendo fedele ai suoi topos, quello della tradizione della selleria su tutti. L’abito con la vinta a punto smock è fatto di carré in seta, una sottosella diventa una giacca da motociclista in pelle trapuntata, il cappotto è una coperta da stringersi addosso quando le temperature sono in picchiata.

La riflessione antologica, enciclopedica, che mette insieme la quotidianità in senso lato, intesa come tempo che passa, con oggetti e capi desiderabili perché dotati di un saldo atterraggio nella vita reale, è però quella di Miuccia Prada da Miu Miu, che ha mandato in scena il guardaroba delle diverse fasi della vita di una donna: da una parte scarpe con punte arrotondate, bomber con inserti in shearling, gonne stampate a fiori in colori acidi, come forti sono i contrasti della giovinezza. Dall’altra Little black dress con scolli e oblò, le pellicce ladylike ricavate da shearling (pelle di montone o agnello) trattato, e archetipi di una certa raggiunta “signorilità”: spille, cappotti affilati, guanti in pelle al gomito. Una riflessione sul dualismo, su chi siamo diventate e chi, in fondo, rimaniamo ancora – delle adolescenti con tabù da infrangere e vestiti da rubare dall’armadio delle nostre madri –  che sembra coerente con quanto detto nell’intervista data di recente dalla Signora, come viene chiamata nel fashion system, a Vogue America.

Courtesy of Miu Miu

«Ogni giorno devo decidere se sono una quindicenne o un’anziana prossima alla morte». In fondo, la più grande libertà di ogni donna è quella di essere entrambe (a giorni alterni). Un paradigma ribadito dal casting che inanellava classici nomi da passerella come la top Vittoria Ceretti o Amelia Gray, a insider come Dara Allen, fashion director di Interview e stylist di Hunter Schafer, passando per donne mature – ma non per questo meno affascinanti – come le attrici Angela Molina e Kristin Scott Thomas. E infine una delle Vic (Very important client) di Prada, Quin Huilan, settantenne dottoressa di Shangai – informazioni che elargisce lei stessa con un certo comprensibile orgoglio nella sua bio di Instagram – cultrice e collezionista del brand.

Prosaico e reale, lirico e pratico: trovare l’equilibrio tra gli opposti sembra essere stato l’obiettivo di molti designer per questa stagione. Qualunque opzione si scelga, l’obiettivo è convincere i clienti della necessità di aderire a questa o quella filosofia, portarli a desiderare il possesso di una giacca o di una borsa come viatico all’ingresso in un ristretto circolo di connaisseur che maneggiano con autorevolezza l’hic et nunc. E parlando di desiderabilità pare di risentire il monologo morettiano del “mi si nota più se non vengo, o se vengo e sto in un angolo?”. Esserci, apparire o sfuggire agli sguardi, concedere o negare la propria immagine è un interrogativo non da poco, nei tempi della costante esposizione delle nostre vite sui social media. Un argomento sul quale Silvia Schirinzi ha scritto su Rivista Studio, e che non tocca solo le singole celebrities – modelle di solito iper-presenti come Bella Hadid sono scomparse dai radar per riguadagnare desiderabilità e fascino dopo un periodo di sovraesposizione mediatica – ma anche i brand. 

The Row, ad esempio, ha vietato agli invitati del suo show di fare video e riprese, invitandoli a prendere appunti su carta e penna da loro gentilmente forniti. Uno stratagemma utile a evitare i prontisti del fast fashion, ma soprattutto, dicono le gemelle Olsen (fondatrici del brand), a veicolare un’esperienza più immersiva, antica e futurista insieme. Le immagini della campagna sono state condivise dal brand qualche giorno dopo tramite i loro canali Instagram, cercando di sfuggire ai diktat del “tutto e subito”, della macchina onnivora dei social che sputa immagini a getto continuo, abbassando il nostro livello di attenzione e la nostra capacità di comprensione della complessità. D’altronde, se c’è un vantaggio che i brand hanno tratto dai social media, è quello di potersi costruire indipendentemente la propria narrazione, bypassando i giornali che fino al giorno prima facevano da disintermediatori di quell’evento al pubblico, con tempi che oggi sono considerati biblici, e ai quali forse dovremmo ritornare, per evitare di sentirci così costantemente stimolati eppure, contemporaneamente, svuotati. 

Che poi è lo stesso motivo per il quale, pur non avendo partecipato alla sfilata di The Row, chi scrive decide di lasciare il cellulare in borsa durante gli eventi. D’altronde, come sostiene Jack White, i cui show cambiano da una data all’altra, «i nostri cellulari sono pieni di video sfocati dei quali non abbiamo bisogno». Non dovendo seguire i social media per il giornale per il quale scrivo – altrimenti questi propositi radicali si scontrerebbero con una realtà ben diversa – ho la possibilità di immergermi per una decina di minuti in un mondo parallelo, da esperire con gli occhi, e non attraverso lo schermo di un cellulare, al quale sembriamo aver appaltato negli ultimi anni la validazione di noi stessi (ci sono, quindi valgo). 

Quello di cui si ha modo di accorgersi sono anche le somiglianze tra la kermesse italiana e quella francese: anche qui la logistica, seppur ben più rilassata, rimane incomprensibile a guardare la geografia della città, e c’è chi si rifiuta di muoversi fino ad Auberville, fuori città, per la sfilata di Coperni – maestri nel creare momenti sensazionali su Instagram, meno nell’arte di costruire un brand portatore di un senso – e chi denuncia i CO2 di Stella McCartney, stilista con l’impegno più serio e costante nei confronti dell’ambiente, ma che organizza il suo show al Parc André-Citroën, nel XV Arrondissement, dove negli anni Settanta sorgeva l’omonima fabbrica di auto. 

Courtesy of STELLA McCARTNEY

Oggi, in una serra vetrata gli ospiti ammirano invece cappotti rigenerati in twill di lana con spalle importanti ispirate a quelle che indossava sua madre Linda, gonne e trench apparentemente in coccodrillo ma in UPPEAL, un’alternativa vegana alla pelle realizzata senza agenti chimici carcinogeni. I vestiti con spacco a U si indossano con blazer di lana ottenuta responsabilmente, senza nuocere all’animale, e i maglioni dai volumi over sono in cashmere rigenerato. Per l’occasione la Falabella, borsa sinonimo del brand, si presenta in una versione con delle bocche stampate, e si acquista subito, con la modalità see now-buy now. A rubare l’attenzione è però il padre Paul McCartney, accompagnato da sodale Ringo Starr: con attitudine rilassata e godereccia, fanno video a tutto come i più classici dei boomer, pur conservando la coolness dei Beatles, mentre si muovono a ritmo della colonna sonora dello show. 

Parigi sarà allora problematica come Milano, in termini di organizzazione della settimana della moda? Non proprio: abbondano i party, e gli eventi letterari firma copie, si passa da Gigi per salutare gli amici di Miu Miu che qui hanno organizzato un after party dove, nomen omen, si ritrovano Gigi Hadid ed Emma Corrin, la Diana della gioventù in The Crown, ma poi qualcuno rimane bloccato alla festa di Saint Laurent, che sul finale della settimana organizza a sorpresa e in segretezza lo show della sua collezione uomo. Al Babylone Saint Laurent, nuova libreria brutalista nel settimo Arrondissement, voluta dall’omonimo brand, Juergen Teller firma le copie del libro fotografico che testimonia il suo lungo lavoro di collaborazione con la maison di Yves, mentre il resto della selezione musicale e letteraria dello store è affidata alla curatela del designer Anthony Vaccarello.

Oltre alle molteplici occasioni di socialità nelle quali ci si fa la conta – chi c’è, chi manca, perché – a Parigi la Fédération (la versione francofona della nostra Camera della Moda) fornisce costante supporto ai talenti più giovani che qui emigrano spesso, anche per via della presenza ingente di buyer, che nella capitale francese si decidono a eseguire i desideratissimi “ordini” con i quali acquistano le collezioni per i loro negozi.

Courtesy of Loewe

Tra gli italiani di belle speranze – e ancora più belle collezioni – ci sono Niccolò Pasqualetti, allievo di JW Anderson e Adrian Appiolaza da Loewe prima di lanciare il suo brand, e che è fresco di nomina come semifinalista del francese Lvmh Prize, così come Veronica Leoni, in arte Quira, tra i consulenti più importanti per le Olsen di The Row, che per il suo progetto solista sceglie l’oratorio del Louvre come ambientazione. Tra i manichini che appaiono autorevoli con indosso giacche e cappotti con collo a listino o abiti drappeggiati in lana-seta spazzolata, si muove silenzioso Lucien Pagès, il re delle Pr parigine – di recente intervistato dal Bof per la sua carriera di successo, le sedi a Parigi e New York, i risultati, le sfilate, gli attestati di stima dai grandi della comunicazione. Non ha mandato qualcuno dei suoi numerosi sottoposti a controllare la presenza e l’afflusso della stampa internazionale all’evento, ma è egli stesso presente e vigile, per garantire (e garantirsi) un altro successo. 

Courtesy of Quira

I grattacapi, però, non mancano neanche nella città sulla Senna, dove ci si confronta, infine, con il dilemma sempiterno tra creatività e profitti: un quesito che è obbligatorio porsi quando si riflette sui debutti che hanno segnato questa stagione parigina, da una parte Chemena Kamali da Chloé, dall’altra Sean McGirr da Alexander McQueen. La prima ha convinto pubblico e critica, riportando il brand parigino nel suo universo di pertinenza, il boho-chic di Rachel Zoe nel 2005, gli abiti da borghese libertina in un film di Bernardo Bertolucci, le cinte dorate con la scritta fuori misura epigoni mastodontiche di quelle realizzate da Karl Lagerfeld, le zeppe indossate da tutto il front row. 

Courtesy of JW Anderson

Meno acclamato è stato il secondo, trentacinquenne irlandese che si confrontava con il fantasma di un designer molto compianto e la sua immensa eredità artistica. La precedente direttrice creativa, Sarah Burton, aveva conservato la sartorialità del brand, silenziando le istanze più ribelli e provocatorie del creativo inglese, che probabilmente non sentiva con la stessa sensibilità o urgenza. Le critiche feroci che sono piovute sugli account social del brand, più violente di qualunque severa review, portano a chiederci se il problema non sia solo un debutto in salita, che ha avuto la colpa di aver messo troppe idee sul tavolo senza connetterle con coesione, quanto le nostre aspettative su un marchio al quale gli appassionati di moda, gli studenti e i giornalisti si sentono legati in maniera viscerale. 

Un cordone ombelicale mai reciso, quello con la storia personale di Alexander McQueen, un conclamato genio incapace di convivere con i propri demoni e con un sistema che, già nel 2010 della sua morte, cercava di addomesticare il talento con la frusta della finanza e dei dividendi, brandendo la spada di Damocle delle it-bag da creare e dei messaggi facili da digerire. Come sostiene Rachel Tashjian, editor del Washington Post, nel suo pezzo “What do we want from a new designer at Alexander McQueen?”, «il mondo della moda non può permettersi designer con dei demoni personali, si muove troppo veloce e chiede troppo ai suoi creatori. Ma d’altronde, è la stabilità emotiva qualcosa che dovremmo chiedere agli stilisti di sacrificare, per fare dell’arte?”

Courtesy of Alexander McQueen

Quesiti validi che, oggi più che mai, ci costringono a riflettere su come la creatività poco si adatti a modelli di business come quelli dei conglomerati finanziari, che persino Demna da Balenciaga, l’ultimo ribelle della moda, sembra soffrire più che mai, in una collezione che riflette su buono e cattivo gusto e che però ricicla memorabilia di Ebay con concetti già assimilati, e mette ai modelli maschere e cappelli che impediscono di vedere (nel desiderio, come ammesso nel backstage, di nascondere allo sguardo i dati, i numeri, le proiezioni di crescita).

McGirr, dalla sua, si impegna anche nel tentativo di trovare un fil rouge tra sé e McQueen, con abiti in plastica omaggio a suo padre meccanico, ribadendo un’origine comune al mondo operaio dal quale arrivava Alexander, padre tassista e madre maestra. Ma il designer tormentato è un’idea romantica buona per i nostalgici reazionari che affollano la sezione “commenti”, non per il business. Un pensiero sul quale ci si sofferma mentre si visita Maison Gainsbourg, quella che fu l’abitazione del chansonnier maudit per antonomasia, Serge, e che da qualche mese ha aperto le sue porte come museo, grazie alla collaborazione di Saint Laurent, brand che intrattiene da anni rapporti di amicizia con la figlia, Charlotte, e che però era amato dal cantante in persona: tra i pezzi con cui il suo stile è passato alla storia, oltre le Repetto bianche indossate rigorosamente senza calze, c’era un blazer gessato Saint Laurent che il brand ha da qualche anno riproposto nelle sue collezioni. 

Eccessivo, autodistruttivo, assoluto e dissoluto, con un tavolo sul quale sono esposti in bella vista il centinaio di distintivi che estorceva scherzosamente ai poliziotti che lo riaccompagnavano a casa la sera (e che invitava a bere nel suo salotto), il genio anche controverso di Gainsbourg non avrebbe trovato vita facile o discografici disposti a investire sulla sua produzione artistica eclettica, mai uguale a se stessa. Sean McGirr non è Alexander McQueen, ed è probabilmente la sua più grande fortuna: presentare una sua visione originale del brand – per quanto ancora allo stadio embrionale – è segno di coraggio, suscettibile di miglioramenti e di evoluzioni. Uno spazio di manovra che a Chemena Kamali, capace di mettere a fuoco in una sola collezione il Chloé del 2005, non è dato. Perché è difficile muoversi ed evolversi in una narrazione così stringente, sorpassata, e auto-conclusiva. Il rischio è di mettere la retromarcia, quando invece dovremmo avere, tutti insieme, il coraggio di aprire gli occhi, come neanche Demna vuole più fare. Dirci «stiamo come stiamo», come in quella vecchia canzone di Loredana Bertè e Mia Martini, qualunque cosa stare al mondo oggi implichi, e, finalmente, guardare negli occhi il presente. 

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