Brodo di cotturaIl giovane Berlusconi e l’isteria collettiva intorno alla televisione

Il documentario sugli inizi dell’ex presidente del Consiglio conferma che le nuove generazioni non riusciranno mai a conoscere la storia italiana del secolo scorso (e nemmeno la grammatica)

Archivio Lapresse

«Io una volta gli chiesi: Silvio, cos’è la televisione? E lui disse: la televisione è tutto ciò che sta intorno alla pubblicità». No, non è una parafrasi di «Rabbi, chi ha peccato?» e se lo sembra è solo un problema di metrica inconscia. È un dialogo che riferisce Vittorio Dotti in “Il giovane Berlusconi”, e che mi dà lo spunto per un’invettiva.

Ci sono almeno un paio di generazioni che, pur avendo a disposizione archivi che nel secolo scorso ce li sognavamo, non leggeranno mai dei libri, non spulceranno mai gli arretrati dei giornali, non sapranno mai fare le domande giuste. Tutto quel che sapranno del Novecento lo sapranno dai documentari Netflix, cioè dalla cosa di più facile e pigro accesso dai loro telefoni.

Ora, ciò non dovrebbe imporre degli standard qualitativi per i documentari? Com’è possibile che se ne facciano sempre di più e siano sempre più brutti? Com’è possibile che il sublime materiale d’archivio del Novecento venga sprecato in prodotti fatti da gente che o non sa di cosa parla, o si sente artista, o mette di mezzo gli eredi col risultato dei santini? (Il Novecento, secolo che in Italia è stato quello dell’adulterio istituzionalizzato, viene sempre rappresentato come un’epoca i cui grandi uomini non hanno avuto amanti, ma anzi sono stati devoti monogami: il risultato sbilenco e sterile che ottieni quando i grandi uomini li fai raccontare a prole e vedove).

“Il giovane Berlusconi” non comincia con un incipit; quello viene dopo, ed è un’intervista giovanile – ma non si sa di quale anno perché gli autori non ci dicono mai i dettagli che lo renderebbero un vero documentario – in cui Berlusconi si rallegra che sia caduto un qualche governo. “Il giovane Berlusconi” comincia con un best of, un trailer, un montaggino delle cose che verranno nelle successive tre ore, perché bisogna pur andare incontro al genere di pubblico che di fronte a un TikTok di tre minuti si sente oberato dall’impegno richiestogli come spettatore.

A un certo punto di queste tre puntate su Netflix – tre puntate il cui materiale da teche è così meraviglioso che non si può non vedere – compare, nelle interviste girate apposta, Marcello Dell’Utri. Il sottopancia dice così: segretario particolare di Berlusconi.

È perché gli autori vogliono essere filologici e in quel momento si parla degli anni giovanili e di Milano 2 e quindi Dell’Utri quello – formalmente – era? È perché vogliono confondere le poche nozioni del pubblico che s’informa dai documentari di Netflix? È perché ne sottovalutano l’attenzione da pesce rosso e pensano sia in grado di recepire informazioni diverse sullo stesso personaggio?

Chi è, tra autori e pubblico, a essere quel personaggio di Fassari che stava in coma per decenni e poi si risvegliava, a essere stato in coma nel Novecento e oltre, e al risveglio aver pensato che Wikipedia bastasse e avanzasse per sentirsi preparati? A chi può venire in mente che l’informazione da dare su Dell’Utri e sui suoi rapporti con Berlusconi sia «segretario»?

Mi pare sia Gigi Moncalvo a raccontare che SB, da palazzinaro, deviò le rotte degli aerei che atterravano a Linate per rendere Milano 2 meno rumorosa e più appetibile. Di certo c’è il rumore della mia mandibola quando mi rendo conto che a Moncalvo devono aver tagliato la storia, e quindi nessuno dice o fa dire a nessuno come fece Berlusconi a ottenere quella deviazione, che è la parte interessante della storia, la parte che dice un dettaglio fondamentale del personaggio: il miliardario maneggione d’un paese fatto di welfare, mica un Trump. SB fece costruire il San Raffaele, e sugli ospedali non possono passare gli aerei. Se manca quel pezzo di storia, stiamo affidando la divulgazione del Novecento a gente che il Novecento non lo conosce.

E che non conosce il francese: i sottotitoli italiani della favolosa dichiarazione di SB che finisce con «champagne le samedi» non ve li svelo, vi mando a guardarli: così, se sapete il francese vi mettete a piangere, e se non lo sapete vi sembrerà solo una battuta incomprensibile.

E che non conosce l’italiano: quando Confalonieri dice che Berlusconi veniva da un certo brodo di coltura, loro sottotitolano «brodo di cottura» (forse i sottotitoli li fa Netflix e non gli autori, non ho idea, di sicuro quella tra chi ha imparato la storia da Wikipedia e chi l’italiano da nessuno è una promettente combinazione).

Poi c’è tutta la parte che riguarda i meccanismi della syndication, che i miei piccoli lettori sanno se hanno letto qui di “Seinfeld” l’altro giorno, e gli autori del documentario evidentemente no, per cui raccontano l’idea dei Betamax mandati in sincrono dalle sedi locali simulando dirette come se fosse un’invenzione berlusconiana e non il rifacimento d’un modello industriale americano (anche se lì la ragione non era che la legge permettesse la diretta solo alla Rai ma il fatto che da uno stato all’altro degli Stati Uniti cambi il fuso orario, e le abitudini di visione).

A un certo punto c’è in sottotraccia persino Truman Capote, anche se ovviamente nessuno ve lo spiega (“Il giovane Berlusconi” è come Google: vi dice delle cose solo se quelle cose le sapete già). Moncalvo racconta d’un aneddoto berlusconiano forse inventato: Silvio va a New York a incontrare Bill Paley, che gli spiega che la tv dev’essere una roba che la accendi e capisci che ora del giorno è.

Paley, se lo si guarda dal punto di vista dell’industria televisiva, è stato quello che s’è inventato la Cbs; se lo si guarda da altri punti di vista, è stato il marito di Babe, la principale dei cigni di Truman Capote (ma in Italia la Disney quand’è che rende disponibile “Capote vs the swans”? E soprattutto, non ho ancora avuto tempo di guardarlo: nella serie c’è la scena di Capote che diventa amico di Babe perché un tal David O. Selznick, già produttore d’un filmetto indipendente intitolato “Via col vento”, chiede di dare un passaggio sul suo aereo all’amico Truman, e Bill acconsente perché pensa si tratti dell’ex presidente Truman?).

E poi c’è Minoli che dice – come sempre – le cose più lucide, e in un frammento di repertorio chiede a SB un suo difetto, e quello – invece di dire un pregio spacciato per difetto come gli aspiranti miss in gambissima ospiti della Fagnani – risponde: ce ne ho così tanti, sono imbarazzato.

E poi c’è Freccero che freccereggia dicendo che quando fa lezione spiega sempre che Berlusconi è uomo del fare, d’altra parte l’ausiliare inglese è «to do», fare, e quello italiano è «essere». Per fortuna i genitori degli allievi di Freccero saranno troppo sprovveduti per andare in segreteria a chiedere la restituzione dei soldi della retta forti della consapevolezza dell’ausiliare «avere».

E poi c’è Mitterrand che, quando Berlusconi decide di fare La Cinq e i giornalisti francesi gli domandano un segno di preoccupazione, dice che l’esempio italiano dell’assenza di regolamentazioni è «deplorevole»; e non sa che una quarantina d’anni dopo arriveranno i sottotitolatori analfabeti che traducono «déplorable» con «deplorabile», il che è in effetti deplorevole.

C’è uno struggente Achille Occhetto, che racconta d’essere tornato, per fare l’incontro televisivo in giacca marrón che tutti ricordiamo, «la notte tarda, da un grande comizio, stanchissimo, a Bologna: perché consideravo ancora, ahimé, che il comizio di Bologna era molto più importante dell’incontro televisivo», e in una sola frase c’è tutta la guerra fredda perduta.

Ma soprattutto c’è Maurizio Costanzo, come sempre il migliore, che su un palco non si sa dove non si sa quando (i documentaristi si sentono artisti: mica possono fornirci un contesto, delle date, farci capire qualcosa) parla dei pretori che hanno sospeso le trasmissioni della rete di tv locali, sospensione che ha fortemente danneggiato i puccettoni che volevano vedere “I puffi”: «Mio figlio m’ha fatto una scenata sui Puffi, non so se i pretori c’hanno figli».

Quando ci spiegano che a quel punto «nasce la rivolta delle mamme che scrivono ai giornali, telefonano ai centralini e minacciano sfracelli contro la politica e contro la giustizia che ha impedito ai loro bambini di vedere i Puffi a quell’ora», è chiaro più che mai che l’Italia negli ultimi quarant’anni non è cambiata: è solo che il popolo dei fax si è spostato sui social, le mamme minacciose che sbraitavano nelle platee di Costanzo si sono spostate su Whatsapp, gli analfabeti si sono spostati sulla semicultura dello streaming, e insomma oggi come allora la televisione è tutto quello che sta attorno all’isteria collettiva.

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