Scontri, non incidentiIl decreto autovelox conferma la deriva autoritaria di Salvini sulla sicurezza stradale

La norma ricalca perfettamente la riforma del codice della strada attualmente in Senato: strozza l’autonomia dei Comuni, ignora i benefici dei trenta all’ora e premia implicitamente gli automobilisti che spingono troppo sull’acceleratore. Una scelta politica precisa, chirurgica, volta a proteggere lo status symbol del nostro Paese

Roberto Monaldo / LaPresse

Oggi, martedì 28 maggio, farà il suo ingresso in Gazzetta Ufficiale il tanto atteso “decreto autovelox”, in linea con la deriva antiscientifica e autoritaria di questo governo in tema di sicurezza stradale e gestione della mobilità. Mentre la riforma del codice della strada, che incarna la dipendenza tutta italiana dall’automobile privata e non interviene sull’eccesso di velocità, è in Senato per la sua approvazione definitiva, il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) ha deciso di mantenere alta l’attenzione sulla sua strategia volta a limitare il margine d’azione dei Comuni. Non a caso, sette delle prime dieci città italiane per popolazione hanno sindaci di centrosinistra (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Bari). 

Al netto dell’inasprimento delle sanzioni per chi guida in stato di alterazione o con lo smartphone in mano, durante la sua avventura al Mit Matteo Salvini non si è mai mosso guardando i dati, i paper scientifici, gli appelli delle associazioni delle vittime della strada e le esperienze di successo non per forza al di là dei confini nazionali, ma anche fuori dai suoi uffici romani o dalla sua casa milanese. 

Nei primi tre mesi di Città 30 (15 gennaio-14 aprile), a Bologna gli incidenti totali sono calati del 14,5 per cento, le persone ferite in strada sono state settantasei in meno e quelle morte due in meno (uno contro tre) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sulla carta, il capoluogo dell’Emilia-Romagna rimarrà probabilmente la prima e unica grande città italiana “a trenta all’ora”, proprio a causa della di una direttiva ministeriale – forse l’unica norma nella storia con le frasi al condizionale – lanciata a gennaio. Mentre in Spagna, ormai da tre anni, il codice della strada impone il limite generalizzato dei trenta chilometri orari in tutte le città (fatta eccezione delle strade a due o più corsie per senso di marcia), in Italia siamo impantanati in questa situazione. 

La questione degli autovelox nelle strade con limite inferiore ai cinquanta all’ora
Il nuovo decreto non è ancora ufficialmente disponibile, ma il testo definitivo è già arrivato nelle mani delle amministrazioni locali. In città, la norma vieterà gli autovelox dove i limiti di velocità sono inferiori ai cinquanta chilometri orari. Il divieto in questi contesti vale sia per gli autovelox fissi, sia per quelli mobili utilizzati dalle polizie locali o stradali.

«Ci resta solo una possibilità: utilizzare l’autovelox mobile nella modalità in cui il singolo automobilista viene fermato quando supera il limite di velocità. Può sembrare un dettaglio tecnico, ma ciò rende lo strumento di controllo inefficace, perché funziona molto a intermittenza. Infatti, mentre l’automobilista che viene fermato incorre nella sanzione, tutti gli altri – dato che la polizia sta lavorando con il veicolo individuato – possono superare i limiti senza conseguenze. C’è una disparità di trattamento», ha detto Marco Granelli, assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, durante la commissione consiliare del 27 maggio. 

Teoricamente, l’installazione degli autovelox lungo le strade con il limite di velocità inferiore ai cinquanta all’ora prevede altre due eccezioni: «Parliamo delle strade urbane ciclabili di quartiere di tipo “E”, di cui però non è mai stata emanata la relativa segnaletica, e degli itinerari ciclopedonali di tipo “F-bis”, ossia le stradine in cui c’è una prevalenza di flussi di pedoni e biciclette. Detto ciò, quello di Salvini è un decreto che, invece che contrastare la velocità eccessiva – la prima causa degli incidenti gravi in Italia secondo Istat –, sembra essenzialmente voler contrastare la possibilità per le forze dell’ordine di far rispettare i limiti di velocità e salvare vite umane», racconta a Linkiesta Andrea Colombo, ex assessore alla Mobilità di Bologna ed esperto legale in tema di sicurezza stradale. 

L’installazione di autovelox fissi in ambito urbano, con limiti di velocità che oscillano tra i trenta e i cinquanta chilometri orari, può salvare dalle sessantasei alle cinquecentocinquantanove vite nel primo anno ed evitare dai trecentottantuno ai millenovantatré feriti gravi. Stando a una delle più autorevoli rassegne mondiali sull’argomento, questi dispositivi hanno portato a una riduzione tra l’undici e il quarantaquattro per cento degli scontri mortali e con lesioni gravi. 

«Ora sarebbe importante se dai sindaci d’Italia arrivasse una risposta forte e simbolica, con la mobilitazione massiccia delle forze di polizia locale per andare a presidiare almeno i luoghi più sensibili, come scuole e ospedali, con pattuglie dotate di telelaser e postazioni mobili», dice a Linkiesta Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna CleanCities.

Dati Aci-Istat (2021) alla mano, il novantaquattro per cento degli scontri è imputabile a chi guida veicoli a motore e l’eccesso di velocità è la prima causa di morte sulle strade urbane. Salvini, però, continua ad avere la presunzione di conoscere meglio dei sindaci, degli assessori e dei consiglieri comunali le situazioni sui territori in cui operano quotidianamente. Sempre secondo l’Istat, nel 2021 il settantatré per cento delle collisioni stradali è avvenuto in ambito urbano, il primo livello dove intervenire per risolvere il problema. Il leader della Lega, alla disperata ricerca di consensi in vista delle elezioni europee dell’8-9 giugno, ritiene la moderazione della velocità una inutile battaglia da radical chic, quando invece è spesso la linea di separazione tra la vita e la morte. 

Lo spazio di arresto di un’automobile che procede a trenta chilometri orari è di trenta metri, e in caso di collisione con un pedone quest’ultimo sopravvive in nove casi su dieci. A cinquanta all’ora, invece, lo spazio di arresto sale a sessantatré metri e in caso di impatto il pedone sopravvive in 0,5 casi su dieci. Per una persona a piedi, recita un report dell’Ufficio prevenzione infortuni (Upi), la probabilità di morire in uno scontro con un veicolo che viaggia a cinquanta all’ora è sei volte superiore rispetto ai trenta chilometri orari. «Un impatto a cinquanta all’ora è come cadere dal terzo piano di un palazzo, mentre a trenta dal primo»: lo dice uno spot dell’Aci, Automobile club d’Italia, non di un’associazione di ciclisti.

Gli altri punti della norma di Salvini
Con il nuovo decreto, stando alla bozza approvata a marzo dalla Conferenza Stato-Città, gli autovelox potranno essere posizionati «dove il limite di velocità individuato non sia inferiore di oltre venti chilometri orari rispetto a quello massimo generalizzato, salvo specifiche e motivate deroghe». Per esempio, lungo le trade extraurbane principali con il limite a centodieci chilometri orari «il dispositivo può essere utilizzato solo se il limite è fissato ad almeno novanta chilometri orari, ma non per limiti inferiori». I sindaci avranno dodici mesi di tempo per adeguarsi, altrimenti gli strumenti non a norma dovranno essere spenti o disinstallati. 

Nulla di inaspettato, considerando che nel marzo 2023 il titolare del Mit ha azzardato la folle proposta di alzare il limite di velocità in autostrada da centotrenta e centocinquanta chilometri orari. Fortunatamente l’idea è stata accantonata, ma l’approccio di Matteo Salvini è rimasto lo stesso: strizzare l’occhio a chi preme troppo sull’acceleratore, concependo l’autovelox come uno strumento volto solo a “batter cassa” e non a proteggere gli utenti (forti e deboli) della strada. 

In base a una nota diffusa dal Mit, il “decreto autovelox” proseguirà con una serie di nuovi paletti che renderanno l’installazione dei dispositivi sempre più complessa, anche a livello burocratico. Il dicastero di Salvini scrive che «per arginare l’eccessiva proliferazione di sanzioni, spesso anche oggetto di contenzioso, si prevedono distanze minime per i tratti stradali su cui sono collocati i dispositivi oltre che distanze minime tra gli stessi autovelox». Inoltre, lungo le strade extraurbane dovrà esserci una distanza di almeno un chilometro tra il segnale del limite di velocità e l’autovelox; il margine tra il cartello e il dispositivo elettronico potrà ridursi a duecento metri lungo le strade urbane e a settantacinque metri in tutte le altre. 

Il leitmotiv della nuova norma sarà, come anticipato all’inizio, la compressione dell’autonomia dei sindaci e di tutto l’apparato politico comunale. D’ora in avanti saranno i prefetti – i rappresentanti del governo sui territori – a decidere le zone adibite all’installazione degli autovelox, ossia tratti stradali caratterizzati da un «elevato livello di incidentalità, documentata impossibilità o difficoltà di procedere alla contestazione immediata sulla base delle condizioni strutturali». Secondo Repubblica, anche l’uso dei dispositivi mobili (quelli montati ai lati delle strade e presidiati dalla polizia locale) dovrà essere coordinato con la prefettura, mentre allo stato attuale le amministrazioni comunali hanno una libertà totale. «Nelle grandi città, dove a operare è solo la polizia locale, il vincolo della programmazione dei controlli da fare in prefettura non lo riteniamo opportuno. La programmazione può avere un senso dove agiscono più forze di polizia, ma non in altri contesti», aggiunge Granelli.

In sostanza, il nuovo decreto del Mit ricalca perfettamente il modus operandi del nuovo codice della strada. Quest’ultimo, per esempio, permetterà di violare i limiti di velocità più volte nell’arco di un’ora (ricevendo una sola sanzione amministrativa) e consentirà la realizzazione di una corsia ciclabile (bike lane) solo lungo le strade in cui è fisicamente impossibile costruire una pista ciclabile protetta: a stabilire questi criteri non sarà una valutazione dei tecnici comunali, ma ministeriali.

Alla luce dell’ennesimo decreto miope del Mit di Salvini, forse dovremmo smettere di scrivere e parlare di “incidenti”. Il termine incidente indica un evento inatteso, improvviso, fortuito. Nelle morti sulle strade, però, spesso c’è davvero poco di casuale. Si tratta di situazioni figlie di scelte politiche precise, condizionate da un impianto culturale in cui la velocità viene ancora concepita come un valore. Secondo l’Istat, nei primi sei mesi del 2023 ci sono stati 79.124 «incidenti stradali con lesioni a persone», 106.493 feriti e 1.384 vittime entro il trentesimo giorno dall’evento. Numeri raggelanti che, al netto dei trend, fanno parte di un ciclo continuo, alimentato (forse anche innescato) dalle decisioni prese nelle aule. Allora dovremmo tutti impegnarci, compresi noi giornalisti, a non usare la parola “incidenti”, ma “scontri”.

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