Per Ursula von der Leyen la conferma alla presidenza della Commissione europea è diventata un miraggio. Il vero problema è l’ambiguità del Partito popolare europeo: l’ha designata spitzenkandidat, aprendo alla destra, in particolare ai Conservatori di Giorgia Meloni, in aperta polemica con i Socialisti e Emmanuel Macron. Ieri la signora tedesca è arrivata a Roma ma non ha partecipato alla manifestazione di apertura della campagna elettorale di Forza Italia. Non era prevista, hanno precisato all’Ansa fonti a lei vicina, ma è veramente un fatto singolare e sintomatico camuffato da aplomb istituzionale. È intervenuta a un dibattito della Fondazione De Gasperi e ha incontrato il ministro degli Esteri Antonio Tajani e i capigruppo di Forza Italia. Nessuna visita alla sua “amica” premier sempre più in difficoltà nel sostenerla al vertice comunitario.
Il primo partito europeo è confuso. I Popolari pensano di avere in mano il boccino del futuro assetto di potere comunitario, eppure l’andatura della signora tedesca appare ogni giorno di più claudicante. La sua candidatura è partita male, con un bel po’ fuoco amico al congresso del partito, e sta continuando peggio nella tattica democristiana dei due forni. Licia Ronzulli, capogruppo al Senato di Forza Italia, l’ha definita un «cavallo zoppo» perché non in grado di mettere tutti d’accordo. Un benvenuto avvelenato in Italia.
Del resto è la logica conseguenza dell’ambiguità di chi vuole tenersi stretta la vecchia alleanza con il Pse e il macroniano Renew Europe, usando come stampella Meloni e il gruppo Ecr di cui fa parte Fratelli d’Italia. È «l’ampia coalizione» delle forze a favore dello Stato di diritto, dell’Unione europea e dell’Ucraina su cui è tornata a parlare proprio ieri von der Leyen. Ampia coalizione che Meloni finora rifiuta a parole perché è in campagna elettorale. Dopo il voto sarà un’altra musica.
Vedremo se cambieranno spartito anche socialisti, macroniani, Verdi e Sinistra che hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta in cui si chiede alla presidente della Commissione e a tutti i partiti democratici di rifiutare qualsiasi normalizzazione, cooperazione o alleanza con i partiti di estrema destra. Si aspettavano che questa barriera venisse scritta formalmente e inequivocabilmente nei loro manifesti elettorali. Cosa che finora non è stata fatta dall’ambiguo Ppe, sfruttando la circostanza che nella dichiarazione congiunta non viene specificato se la porta dovrà essere sbattuta in faccia pure a tutti i Conservatori di Ecr. Cosa che invece vorrebbe il più lineare e coerente premier polacco Donald Tusk, esponente di punta del Ppe, nemico dei conservatori del PiS. Più chiaro è stato ieri lo spitzenkandidat del Pse Nicolas Schmit, parlando a un’iniziativa elettorale a Carpi insieme a Elly Schlein. Ha detto che c’è una «linea rossa» da tracciare: mai insieme a chi non riesce a definirsi antifascista.
Sarà il voto dell’8 e del 9 giugno a sciogliere le ambiguità e scegliere le maggioranze possibili, ma fin d’ora è chiara una sola cosa: salvo tsunami nelle urne, non ci sarà una maggioranza di centrodestra nel Parlamento europeo. Così come non c’è nel Consiglio europeo dove siedono Emmanuel Macron, il premier socialista spagnolo Pedro Sanchez, in grande spolvero dopo il successo elettorale in Catalogna, e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. La linea netta sulla guerra in Ucraina (chissà a giugno dove saranno arrivati i carri armati russi) e sulla capacità di difesa europea sarà uno spartiacque fondamentale, insieme a cosa rimarrà del Green Deal di Timmermans. Ma il futuro di Ursula sembra segnato. Del resto anche Tajani ha declassato la candidatura del Ppe a un semplice «suggerimento»: poi a decidere saranno i capi di Stato e di governo che siedono nel Consiglio europeo.