Sesto uomoNella vittoria dei Boston Celtics ci sono tutte le lacrime e le paure di noi tifosi

Tatum, Brown e soci hanno portato in Massachusetts il diciottesimo titolo Nba, il primo dal 2008, il secondo in trentotto anni. Per chi nelle partite mette il cuore, certe emozioni sembrano un sogno dal quale non ci si vuole svegliare

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Alle cinque di mattina la collina si sveglia al suo ritmo placido, ci sono i trattori che tengono i giri al minimo e si arrampicano, c’è la luce timida dell’alba e c’è un tizio che si rotola sul pavimento in lacrime, urlando ma senza urlare ché i bambini dormono. Sullo schermo scorrono le immagini in arrivo in diretta da Boston, i Celtics hanno vinto il primo titolo Nba dal 2008, il secondo in trentotto anni e l’uomo sul tappeto è stravolto e incredulo perché pensava non sarebbe più successo.

L’uomo sul tappeto sono io, lontano migliaia di chilometri dal luogo della partita, vicino ad altri milioni che come me nel mondo hanno sposato una causa ai tempi degli anni Ottanta vincente e poi pericolosamente decaduta. Decadente addirittura.

Tifo Boston Celtics dai tempi di Larry Bird, Kevin McHale, Robert Parish e tutti gli altri protagonisti e comparse di un gruppo che sembrava poter durare in eterno e invece è sfarinato alla velocità della luce.

Gli americani le chiamano dinasty, gruppi di giocatori capaci di costruire una tradizione vincente. A Boston sembrava successo di nuovo nel 2008 e invece anche lì tante aspettative, premesse meravigliose e alla fine un pugno di mosche, un solo titolo e troppe amarezze assortite. Non può piovere per sempre ma capita di non vincere più.

Ci sono squadre che si fermano a un passo dal decimo scudetto e non lo prendono mai, ci sono quelle che non vincono da cento anni, lo sport non è una scienza esatta o forse è scienza proprio perché inesatto.

Vallo a spiegare tu ai bostoniani, spocchiosi e conservatori, incapaci di accettare la mediocrità e costretti a veder passare centinaia di giocatori meno che discreti e farseli andare bene. Perché mai come nell’Nba dello spettacolo a tutti i costi non sono i denari a decretare il successo e senza l’intuizione del talento si naufraga tutti.

Quando i campioni del 2008 se ne sono andati a Boston sono arrivati mestieranti, falegnami, fabbri e scelte. Le scelte sono il diritto di pescare nuovi giocatori tra quelli che escono dai college e scelgono di fare il salto, si dichiarano eleggibili.

Certo che se perdi Paul Pierce, Kevin Garnett e Ray Allen le scelte sono una magra consolazione. Invece.

Danny Ainge è un ex bandiera dei Celtics, ora fa il general manager per gli Utah Jazz ma nel 2013 era saldo e sicuro della sua scrivania a Boston. Mormone, padre di sei figli e noto per essere un discreto figlio di mignotta in campo, Ainge è stato una bandiera della crudeltà selettiva dei manager Nba. Capace di scambiare e tagliare contratti di giocatori adorati dal pubblico e considerati intoccabili, nell’estate 2013 Ainge ha messo in piedi una trade gigantesca e complessa, il battito d’ali di farfalla che ha portato undici anni dopo la vittoria del diciottesimo titolo.

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Come detto, via le stelle e dentro i gregari e le scelte, quelli e uno splendido allenatore come Brad Stevens, scommessa coraggiosa.

Con la pesca che sarebbe spettata ai Brooklyn Nets, i Celtics hanno preso prima Jaylen Brown (2016) e poi Jayson Tatum (2017). Una visione più che un progetto.

Con il materiale umano composito e scomposto a sua disposizione Brad Stevens ha fatto grandi cose, a volte cose impensabili. Ainge anche.

Quando da mattina a sera ha scambiato il piccolo Isaiah Thomas, simbolo della rinascita e reduce da un drammatico lutto familiare, è stato chiaro a tutti che a Boston si doveva vincere e basta, non era possibile sprecare del tempo in cerimonie, empatia e rispetto. Non per Danny Ainge.

I Celtics della banter-era 2013/2016 si sono presto trasformati nella squadra dei giovani Jays di cui sopra e con loro di alcuni campioni invitati al tavolo per colmare i vuoti e rimediare alle inesperienze. Non ha funzionato.

Tante finali di Conference, una finale Nba, nessun titolo. I Celtics sono presto diventati i soliti stronzi di quella trilogia lì, quella più citata. Pazienza la gioventù, certo gli infortuni, amen gli avversari. Se Boston non vince mica arriva seconda, non c’è onore delle armi. Ci sono tragedie, fallimenti, processi, scherno.

Una delle critiche più ridondanti ai Jays è sempre stata quella sul primo violino: chi lo suona se nessuno dei due lo è? Chi si prende le responsabilità nei momenti cruciali, dicevano? Nessuno dei due, sentenziavano. Troppo morbido e svagato l’uno, troppo ombroso, intelligente e poco talentuoso l’altro.

Così a Boston hanno puntato sugli adulti e si è presentato un supporting cast eccellente, da Gordon Hayward a Kemba Walker, entrambi gravemente infortunati, da Al Horford (sul quale tornerò) all’amato e odiatissimo Kyrie Irving (sul quale anche sarà necessario tornare). Tanti nomi, nessuna squadra.

Poi la domanda e il mondo son girati su un dito: chi fa il primo violino? Tutti e due.

Danny Ainge è andato a Utah, Brad Stevens ha preso suo posto dopo otto anni senza mai alzare un trofeo, otto anni molto belli ma faticosi più per lui che per gli altri, una sorta di enorme ammissione di colpa, come dire: ho toccato il soffitto, non posso fare di più ma posso trovare chi faccia meglio di me.

Dentro altri allenatori, diversi dal modo professorale e calmo di Stevens. Prima è arrivato Ime Udoka, subito in finale e licenziato a fine anno per una condotta sessuale sconveniente (sulla quale restano ombre e misteri), poi Joe Mazulla, coetaneo di alcuni giocatori ma scelto da loro per qualità ed empatia.

Un’altra semifinale, poi il titolo.

Il diciottesimo anello, quello che rende i Celtics la squadra più vincente della storia dell’Nba. Non si può non vincere per sempre e i Jays lo hanno capito.

Sono arrivati giocatori enormi come Jrue Holiday e Derrick White è tornato il saggio e intramontabile Horford, è arrivato uno bizzoso ma unico come Porzingis. Una creatura perfetta la squadra di quest’anno, poi però il titolo devi portarlo a casa e non sulla carta.

I Jays hanno fatto e come nella migliore tradizione epica ci sono arrivati uccidendo uno dei padri, quel Kyrie Irving che fece il gran rifiuto pochi anni fa, personaggio complesso e discusso (dal terrapiattismo alle posizioni no vax), ma soprattutto l’uomo che calpestò Lucky in segno di disprezzo.

Lucky è la mascotte dei Celtics, dipinta nel cerchio di metà campo, una sorta di luogo mistico nel palazzetto, strana mossa per uno che nella mistica dice di credere.

Fatto sta che alle cinque e mezza sono ancora lì che urlo in silenzio, che mi sembra di impazzire di gioia e da fuori sembra che sia impazzito e basta perché uno dice va bene Zelig, va bene pensarsi cittadino di Bean Town anche così lontano, va bene identificarsi ma cosa piangi cosa per una squadra di basket?

A Boston quest’anno dicevano #differenthere, avevano ragione. Vincere in quel palazzetto, sotto i diciassette stendardi di altri campionati è difficile, diverso. Serve qualcosa di più, torna qualcosa di meno.

Ho iniziato a tifare Celtics anche perché mio zio aveva un bellissimo canestro con Lucky stampato sul tabellone, ero piccolo e non lo colpivo mai.

All’alba è tutto confuso e se non vinci da troppo hai paura non sia vero, cerchi di non addormentarti perché hai paura che sia solo il dormiveglia, che sfumi tutto, che ci sia un grosso equivoco. Ho deciso di stare sveglio ancora un po’, metti che succede qualcosa, metti che i trattori mi rubano la vittoria. C’è una gran confusione, il rigore bostoniano proprio no, sarà colpa del fuso.

Accasciato sul parquet c’è Al Horford, il padre di tutti noi. Ci ha messo diciassette anni a vincere il primo titolo Nba, ha giocato ancora da protagonista, un manuale di basket e intensità. Siamo tutti accasciati con lui. Abbiamo vinto, hanno vinto loro ma io c’ero, il terzo violino, quello appena fuori dallo schermo.

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