L’economia delle piattaformeHanno chiuso Prisma, boicottate tutto tranne le forcine a domicilio

Prime Video ha sospeso una serie tv che tratta di adolescenti, e sono partiti gli appelli e i boicottaggi. Fate un po’ come volete, ma paghiamo Amazon per fare la spesa senza uscire di casa, non per altro

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Una volta c’erano i produttori, i biglietti, da metà anni Ottanta persino i dati Auditel, e insomma un successo era un successo. A volte i successi di numeri arrivavano dopo quelli d’opinione (non è che “La tv delle ragazze” avesse numeri da Sanremo, ma ha formato la mia generazione quanto i Sanremo di quegli anni), ma insomma non accadeva di non avere la più pallida idea se un prodotto d’intrattenimento fosse un successo o un fallimento.

Adesso c’è il parmigiano grattugiato, principale potere decisionale nella scelta dei consumi d’intrattenimento delle famiglie italiane, almeno se usiamo casa mia come campione demoscopico: se “Prisma” ha chiuso, è per il parmigiano grattugiato.

“Prisma” è una serie che né io né voi abbiamo mai guardato, visto che tratta di adolescenti e che sono ragionevolmente certa che l’intersezione tra l’insieme degli adulti che leggono me e quello degli adulti che guardano i prodotti che parlano dei coetanei dei figli pensando di diventare genitori migliori costituisca un insieme vuoto.

“Prisma” andava su Prime video, e qui inizia la parte di articolo in cui non c’è un’informazione verificabile che sia una. Accade infatti che, nelle piattaforme che hanno sostituito il telecomando di quand’eravamo piccoli, nulla sia fattuale, nulla sia noto, tutti ti riferiscano informazioni che gli ha detto il cugino del cognato del portiere, e nessuno – neanche chi fa i film o le serie – conosca i risultati di pubblico.

Io credo nel rasoio di Occam, e quindi credo che, se una serie viene chiusa, sia perché non la guardavano abbastanza persone. Certo, c’è il problema dello scorcio di panorama, che quelli che vogliono sentirsi moderni chiamano «bolla». I nostri amici guardano tutti la tal cosa, quindi la tal cosa è di successo. I nostri amici hanno tutti letto il tal libro, quindi è inspiegabile che il tal libro non sia in classifica. Lo scorcio di panorama vale al positivo come al negativo: è quello per cui ti chiedi chi sia Ultimo, e quello intanto riempie gli stadi come fosse Vasco.

Quindi gli invasati che sui social si strappano i capelli – perché l’avete chiusoooo, lo guardavamo tuttiiii – tendenzialmente non mi convincono: sono identici agli invasati che si strappavano i capelli quando Netflix chiuse “Sense8”, identicamente affezionati al loro consumo e identicamente convinti che sia un consumo condiviso. Però non lo è, se no non l’avrebbero chiuso, no? Nessuna azienda è così stolta da dismettere un prodotto che funziona.

Solo che questa valutazione forse non si può più fare, e non solo perché le piattaforme non comunicano i numeri di spettatori né ai giornali né a chi lavora per le piattaforme stesse e quindi è impossibile verificare se un prodotto abbia un pubblico o no. Non è possibile farla perché l’economia delle piattaforme non sta in piedi comunque.

Quanto sarà costata “The perfect couple” a Netflix? Nicole Kidman avrà preso più o meno dei trentacinque milioni che il New York Times dice Apple abbia dato a Clooney per “Wolfs”? (Lui nega, per inciso). E, se anche gliene avesse dati un decimo, il che sappiamo essere impossibile perché conosciamo le tariffe hollywoodiane, come rientra di quei soldi?

In questo mese in cui sono stata abbonata a Netflix, un abbonamento che – diversamente da quelli della tv di quando la tv a pagamento costava – posso disdire e riattivare senza fatiche e senza preavvisi, in questo mese a tredici euro ho visto “The perfect couple” (sei puntate), “Kaos” (otto puntate), il monologo di Joe Rogan. L’ultima volta che avevo sentito l’esigenza di abbonarmi a Netflix era stata a marzo, per vedere il monologo di Chris Rock. Fanno ventisei euro in un anno. A fronte di centinaia di milioni di dollari spesi da Netflix solo per le quattro produzioni che ho guardato io.

Su Instagram gira un video di Matt Damon che, presentista come un uomo di questo secolo, dice che il modello economico del cinema è andato in crisi quando ha smesso di esistere quell’ulteriore finestra di guadagno, dopo la sala, che era il dvd. Ma, amico Matt, i vhs (e poi i dvd) furono l’inizio della fine. Tu te li ricordi come l’epoca d’oro perché avevi vent’anni e tutta una carriera davanti, ma è chiaro che se dico al pubblico che quel film se lo potrà presto guardare dal divano non c’è una ragione al mondo per cui quello debba uscire e cercare parcheggio e vederlo in mezzo agli estranei. A parte alcuni psicopatici con la mistica del cinema in sala, ma quelle son perversioni; a parte “Barbie” e la Cortellesi, ma quelli sono eventi, mica abitudini.

Una volta “The perfect couple” sarebbe stato un film, i produttori non avrebbero avuto bisogno di allungare il brodo per farsi pagare da Netflix sei puntate invece di due, saremmo tutti andati al cinema e, coi ventisei euro che ho dato in un anno a Netflix per vedere quattro produzioni fantastiliardarie, io avrei pagato a stento il mio biglietto per un film, i popcorn, la birra, il metrò. Una volta esisteva un’economia, poi sono arrivati i divani e le buche.

Il punto non è perché a Prime convenga chiudere “Prisma”, è perché a questi luoghi keynesiani che sono le piattaforme convenga far aprire tutte quelle buche, nella speranza che attirino più pubblico, più di ora, più di sempre. «Quand’ero un giovane attore, si producevano sessantaquattro serie. E se eri in una di quelle sessantaquattro, dovevi cercare di farla restare tra le venti più viste, se volevi continuare ad andare in onda. E non c’era altro, cinque film all’anno fatti dagli studios. Adesso di serie ce ne sono seicento». Lo dice George Clooney, e l’intervistatore non gli chiede: ma il pubblico per quelle seicento serie c’è? E, se il pubblico ti dà gli stessi soldi che tu gli dia in cambio seicento serie o sessanta, come si regge questo sistema?

Il video con cui Ludovico Bessegato, autore di “Prisma”, ne annuncia l’interruzione, è il quarto sulla sua pagina Instagram. Sopra ci sono tre post fissati: una copertina di giornale, una qualche classifica in cui è il più promettente qualcosa, un premio. Oggi ti premiano, domani ti chiudono: è impossibile sapere cosa sia un successo e cosa un disastro (no, i like sui social non contano, non è che ogni volta possiamo ricominciare daccapo a spiegare).

Il video di Ludovico Bessegato dice una serie di cose per cui io potrei dare delle testate al muro, da «Ciao a tutti e a tutte e a tutt’» a «Abbiamo raccontato un’Italia che esiste e che nessuno racconta», ma questo non è importante: mica sono io il suo pubblico. Il suo pubblico sono quelli che non hanno idea di cosa sia una produzione televisiva (né di cosa sia il lavoro retribuito) e quindi lo esortano a continuare a girare la serie col cellulare per strada, sono quelli che fanno le petizioni contro la chiusura, come già per “Sense8”. Nessuna petizione è mai servita a nulla, ma una che minaccia di cessazione d’abbonamento Prime ha ben meno senso di una che rivolgesse analoga minaccia a Netflix.

Nessuno è abbonato a Prime per le serie, per i film, per i programmi comici orrendi per cui hanno coperto di soldi l’intero star system italiano (ma la ragione per cui il prossimo “Lol” non lo farà Fedez è che persino Prime ha finito di comportarsi da zio ricco che esagera con le mance a Natale? O è che ormai investono in produzioni in cui Lillo, chiunque egli sia, fa l’elfo di Natale, l’addestratore di cani, il sé stesso?).

Prime Video è un benefit che Amazon ti dà quando sei cliente fisso e quindi paghi un tot all’anno. Non paghi per guardare le serie: prima pagavi perché così ti mandavano tutto gratis subito, anche quando compravi un libro in edizione economica da otto euro, invece di dovere o pagare le spese di spedizione (un concetto ormai inaccettabile) o aspettare di avere abbastanza libri nel carrello da raggiungere la soglia di spedizione gratuita (un’idea che vìola quel diritto umano che è la soddisfazione istantanea del desiderio). Da dopo la pandemia, quando anche i più restii si sono abituati a comprare on line, i soldi a Prime li dai perché così se compri una brugola, una forcina, una gommapane te le spediscono gratis (una sola forcina nel suo bravo pacco, se lo sanno gli ecologisti fanno harakiri).

È per quello che, quando tra il 2021 e il 2022 il rinnovo di Prime è passato da 36 euro a 50, nessuno ha fatto un plissé per un usuraio aumento del quaranta per cento: non perché volessimo vedere “Prisma” o altre serie in cui Jeff Bezos keynesianamente butta quelli che per lui sono spicci, ma perché volevamo la forcina gratuitamente a domicilio.

Io, che le forcine non le uso, non potrei mai disdire Prime, oltre che perché trovo inconcepibile dover andare nei negozi, anche e soprattutto per il parmigiano. Quello già grattugiato, in barattolo. Esselunga on line non lo tiene più, Amazon Fresh sì.

Io “Prisma” non l’ho mai visto, e petizioni e boicottaggi in generale ho troppo senso del ridicolo per farne, ma sento di dire una cosa agli spettatori feriti: la vostra è sicuramente una minaccia vacua, e lo so perché so che, se mi avessero chiuso “Succession” in anticipo, avrei minacciato sfracelli, ma mai avrei potuto disdire l’abbonamento a chi lo trasmetteva, se quel qualcuno fosse stato il mio spacciatore di parmigiano.

I vostri genitori, quelli che pagano i cinquanta euro l’anno di Prime, vi vogliono bene e vogliono che guardiate la serie in cui vi piace specchiarvi, ma fidatevi: non sono disposti a rinunciare al parmigiano.

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