Da esattamente un mese, le scalinate del Parlamento di viale Rustaveli, a Tbilisi, sono diventate la dimora fissa di una quindicina di abitanti di Shukruti, un villaggio della regione occidentale dell’Imerezia, nel cuore della Georgia. Si sono trasferiti nella capitale per portare avanti uno sciopero della fame davanti all’intera classe politica del Paese, ultima risorsa in un ciclo di proteste che prosegue da più di cinque anni.
L’intera municipalità di Chiatura, di cui Shukruti fa parte, è stata il nucleo produttivo dell’industria del manganese per tutto il Novecento, fino al crollo dell’Unione Sovietica. Poi per quasi vent’anni l’estrazione del minerale è stata sospesa, fino al 2006, quando l’azienda Georgian Manganese Holding (Gmh) ha acquisito una concessione mineraria di durata quarantennale per operare nella miniera di Shukruti, e che a partire dal 2017 è stata estesa anche ad altre quindici miniere e cave. Già nel 2013, subito dopo la caduta del governo guidato dallo United National Movement di Mikheil Saakashvili, Gmh era stata multata per un ammontare di quattrocentosedici milioni di lari (circa centotrentotto milioni di euro) per i danni ambientali causati dalle sue attività.
«L’estrazione di manganese è legata a un aumento significativo dell’inquinamento atmosferico, del suolo, dell’acqua e acustico», ha spiegato Nino Gujaraidze, rappresentante della Ong Green Alternative a Linkiesta. I terreni agricoli e da pascolo della zona sono infatti da anni contaminati da metalli pesanti che, una volta ingeriti, sono estremamente pericolosi per l’uomo.
Inoltre, ed è proprio per questo che i manifestanti si sono riuniti davanti al Parlamento, Gmh è accusata di avere minato – illegalmente – sotto le proprietà private degli abitanti di Shukruti, le cui case oggi collassano a causa della mancanza di fondamenta solide. E la holding si rifiuta di risarcirli. O meglio, sostiene di averlo già fatto, contraddicendo i manifestanti, ma portando come prove solo documenti redatti da Nikoloz Mirian, accusato in passato di aver contraffatto atti dello stesso tipo.
Così lo scorso 14 marzo i residenti della zona hanno iniziato a protestare davanti alle miniere di Shukruti e della vicina Korokhnali per attirare l’attenzione dei media e del governo prima che la situazione degeneri del tutto, come è già successo nelle vicine cittadine di Shovi e Itkhvisi, che negli ultimi due anni, sempre a causa delle miniere illegali di manganese, sono state travolte da frane che hanno provocato decine di vittime.
Le richieste di aiuto delle famiglie, però, non sono state ascoltate da alcun partito. E, anzi, le proteste a Shukruti sono state vietate dal tribunale locale. Quindi gli attivisti hanno deciso di spostarsi a Tbilisi, dove cinque operai, già in sciopero della fame da dodici giorni, hanno deciso di cucirsi la bocca per dimostrare la loro risolutezza. Un mese dopo l’inizio del presidio, nessun esponente politico si è espresso a riguardo.
«Protestiamo da più di duecento giorni. Quei ragazzi non mangiano da quarantadue giorni. E da due settimane abbiamo smesso di mangiare anche noi donne», spiegano le manifestanti accampate in viale Rustaveli, di cui la sessantaquattrenne Dali Kupatadze si fa portavoce: «Siamo venuti qui perché saremmo stati vicini al Parlamento, perché speravamo che il governo avrebbe ascoltato le nostre voci. Ma nessuno ci ha rivolto una singola parola, non hanno neanche aperto bocca».
In realtà, il primo ministro Irakli Kobakhidze ha espresso – quasi ermeticamente – la sua opinione sulle proteste, dicendo che «questo tipo di azioni spesso coincide con il periodo della campagna elettorale». La dichiarazione aumenta di significato quando si ricollega alle accuse mosse contro i manifestanti dalla succursale di Chiatura della Gmh il 26 settembre, secondo cui gli scioperanti sarebbero «appoggiati da Ong», tra cui proprio Green Alternative, «direttamente collegate ai partiti politici radicali, che a loro volta usano le proteste per un loro tornaconto».
Tutte le parti accusate, però, hanno smentito categoricamente: «Georgian Manganese nega di essere responsabile per i danni provocati dalla sua attività», spiega Gujaraidze. «E rilascia dichiarazioni che fanno eco a quelle utilizzate dai membri del governo in carica, che – soprattutto dopo l’adozione della “Legge russa” – hanno iniziato a etichettare ogni forma di protesta come «artificiale» e «coordinata da Ong manipolate da attori politici radicali».
«Ci danno dei radicali, ci dicono che siamo pagati dall’opposizione: nulla di tutto questo è vero. Scendiamo in strada da sette mesi, altro che “periodo di elezioni”. E nessuno – né il governo, né l’opposizione – ci ha considerati», aggiungono i manifestanti. Gli scioperanti stanno iniziando a rassegnarsi al fatto che nessuno in viale Rustaveli abbia intenzione di aiutarli concretamente. Le proteste proseguono a intermittenza da cinque anni, a partire da settembre 2019, momento in cui gli effetti dell’estrazione di manganese sono diventati evidenti e i residenti di Chiatura hanno iniziato a organizzare presidi davanti agli ingressi delle miniere. E ogni volta che le proteste si fanno più intense, Gmh cerca di calmare le acque con degli accordi che però puntualmente non vengono rispettati.
Il 9 giugno 2021, per esempio, dopo cento giorni di proteste di fronte all’ambasciata statunitense a Tbilisi, Georgian Manganese sembrava aver almeno parzialmente accontentato le richieste dei manifestanti, firmando un contratto in cui l’azienda aveva incaricato l’Ufficio nazionale forense Levan Samkharauli di stimare i danni arrecati alle famiglie di Sukhumi. I patti, però, stando alle dichiarazioni di chi vive ormai da un mese sui gradini di fronte al Parlamento, non sono stati rispettati. «Uno dei firmatari dell’accordo è qui con noi, eppure non ha avuto alcun tipo di risarcimento. Dicono di averci ricompensati per i danni subiti. Ma nessuna delle persone sedute qui ha ricevuto un soldo. E vorremmo solo poter vivere al sicuro. Siamo anche disposti a trasferirci, vogliamo solo una casa dove non sia pericoloso abitare. Ma non ci accontenteranno neppure in questo».
E gli abitanti di Shukruti non possono neanche contare sul completo supporto dei loro concittadini: «Alcuni sono grati agli investitori di Georgian Manganese, perché lavorano e si mantengono proprio grazie a loro. Tanti impiegati comunque hanno protestato, e hanno perso il lavoro, anche se non tutti», spiega Kupatadze. «È come se il villaggio fosse spaccato a metà, tra chi è soddisfatto della situazione e chi no».
Il problema non sta solo nel mancato risarcimento, ma anche – e soprattutto – nel fatto che i manifestanti hanno iniziato a risentire fisicamente dello sforzo richiesto dal loro corpo dopo quaranta giorni di sciopero della fame, durante i quali hanno dormito sopra dei materassini gonfiabili, coperti solo da ombrelloni da spiaggia, dato che le forze dell’ordine hanno proibito loro di ripararsi con le tende, a prescindere dalle condizioni atmosferiche.
Non è semplice, anche per gli esterni, sostenere gli scioperanti: chiunque voglia avvicinarsi, che sia per aiutarli portando coperte e sacchi a pelo, o semplicemente per fare alcune domande, viene prima perquisito dai poliziotti che stazionano costantemente davanti al Parlamento.
E, nonostante i quaranta giorni di sciopero della fame abbiano inevitabilmente iniziato a influire pesantemente sulla salute dei manifestanti (il trentatreenne Giorgi Bitsadze è stato ricoverato il 30 settembre a seguito di un malore, e per tutti anche solo camminare fino al bagno pubblico più vicino – distante trecento metri dal Parlamento – è diventato quasi un’impresa), la determinazione rimane alta: «Combatteremo fino alla fine», dichiara Kupatadze. «Non ci arrenderemo perché, se lo facciamo, perderemo tutto: ogni cosa che i nostri nonni hanno costruito negli anni finirà sotto terra. E quindi combatteremo fino alla fine». E conclude: «Pioggia, neve, afa, non importa. Noi lotteremo fino alla fine».