Nell’Italia devastata dalle conseguenze della pandemia, la politica è al capezzale del presidente del Consiglio. Mentre alcuni, pochi, pensano di prolungarne l’agonia, altri sono pronti a somministrargli la dose letale, in una sorta di eutanasia politica che i suoi spasmi sembrano invocare. In tutti è pressante la preoccupazione di quanto danno egli possa ancora fare, maneggiando senza cura il pacchetto esplosivo dei fondi del Recovery Plan, una bomba a orologeria che, se non disinnescata, potrebbe far deflagrare ciò che resta del paese che in un tempo lontano si collocava tra il quinto e il sesto posto nella classifica delle potenze industriali.
Tra coloro che lo assistono negli ultimi giorni ci sono infermiere innamorate, antichi sodali che ne conoscono bene le oscure origini e sicofanti già a metà del guado che non vogliono finire come i membri della corte di Donald Trump, già intenti a preparare gli scatoloni, con la differenza che molti di questi, dotati di master prestigiosi, potranno riciclarsi in altri settori della vita americana, mentre davanti ai nostri si apre il baratro in fondo a cui scorre, non si ancora per quanto, il reddito di cittadinanza.
Sta per chiudersi un capitolo tragico della storia nazionale che sarà ricordato come quello in cui i problemi più gravi dal dopoguerra furono affrontati dal personale politico meno preparato e competente dell’età repubblicana. Presto toccherà spalare le macerie e ricostruire agli occhi dei cittadini storditi e disillusi i pilastri di una nuova convivenza, la credibilità delle istituzioni, le fondamenta di una nuova economia che, in alcun modo, potrà somigliare alla precedente di cui molti si ostinano a promettere il ritorno, come se l’anno che va a chiudersi e quello che sta per arrivare fossero sfiorati da una valanga, lasciando gli italiani impauriti ma salvi.
Al tramonto delle rodomontate del tipo «non lasceremo indietro nessuno» e al declino del linguaggio più mellifluo che mai sia stato parlato nel palazzo voluto da Agostino Chigi, la cui ombra ha illuso i nani che lo abitano a sentirsi grandi statisti, il Paese mostra tutte le proprie piaghe antiche e recenti che con un pietoso bendaggio si è pensato di nascondere, fino al punto da rendere irriconoscibile il paziente e presentarlo in modo ambiguo all’Europa e al mondo.
Come nel capitolo finale di “Morte a Venezia” di Thomas Mann, il colore posticcio di un improvvisato maquillage comincia a colare sul volto del protagonista rivelandone le vere sembianze. Ne abbiamo visto la tragica replica interpretata da Rudolph Giuliani, l’ultimo difensore del Forte Alamo trumpiano travolto dal voto democratico, mentre il suo dante recitava dall’elicottero il ruolo di clown in chief. La fine di molti leader, prima osannati e poi odiati è sempre connotata da volti sfigurati e dalle tragiche smorfie del momento del trapasso. Così fu per Benito Mussolini, gonfio e tumefatto ai piedi del traliccio su cui era stato issato in un’ultima parodia del balcone fatale, così è stato per Saddam Hussein ridotto l’ombra di se stesso e di Mu’ammar Gheddafi, strappato a forza da un tubo di fogna in cui aveva tentato l’ultima difesa e sostanzialmente linciato con la furia antica che sovente travolge il potere, estranea ad ogni forma di pietà per chi è già a terra.
Nell’Europa della difesa dei diritti umani la pena è meno cruenta ma ugualmente spietata, e si chiama silenzio: quella forma di oblio insopportabile per chi ha trovato nel clamore delle folle, negli applausi dei media e nei riflettori della scena internazionale il proprio specchio di Narciso.
L’ultimo palcoscenico di questo tragico spettacolo ha trovato raffigurazione in quella Libia che sempre sempre ha portato sfortuna alle mire italiane nell’arco di oltre un secolo. Ancora una volta era di scena un malato, anzi il grande malato d’Europa, quell’impero ottomano in disfacimento dei cui resti si cibò l’imperialismo europeo. Con la differenza che mentre altre e più serie nazioni mettevano le mani su territori strategici come l’Egitto e il Canale di Suez o ricchi di risorse naturali come il Congo o il Sud Africa, all’italietta di Francesco Crispi prima e di Mussolini dopo toccò in sorte “lo scatolone di sabbia” (la Libia, ndr) di cui mai si avviò alcuna prospezione petrolifera. Preferendo così la retorica dell’impero, a cui venne sacrificata l’immagine degli italiani brava gente rivelatisi occupanti a tutti gli effetti e spietati autori della repressione di ogni forma di resistenza, come è stato ricordato dalle più recenti rivisitazioni circa l’impiego di armi chimiche e l’impiccagione dell’eroe nazionale, il settantenne Omar Al – Mukhtar, nei pressi di Bengasi, davanti ad una folla di oltre ventimila persone.
Le sequenze che riprendono Giuseppe Conte e Luigi Di Maio gloriarsi abusivamente – in merito al rilascio dei diciotto pescatori mazaresi – dei risultati perseguiti da altri soggetti dello Stato nel silenzio e nella riservatezza, fanno il trio con la cattura di Cesare Battisti e con la liberazione di Silvia Romano: copioni uguali, tranne che per il fondale: giallo-verde il primo e giallo-rosso per il secondo e il terzo. Medesimo il protagonista come medesimi sono stati i denari versati per conseguire l’esito favorevole delle vicende in questione. Tuttavia l’episodio più recente ha unito al danno lo scherno, palesato dalla foto opportunity con il generale Khalifa Haftar presso il quale perorare la richiesta di Fajiez Mustafà Al Sarraj, titolare dell’unico governo libico riconosciuto da Stati Uniti e Unione Europea, di riunificare il paese sotto una personalità di suo gradimento. Questa almeno l’interpretazione autentica della missione data dal quotidiano La Repubblica del 19 dicembre scorso.
Dopo le gesta di Federica Mogherini, gli ambasciatori dell’Unione non potevano essere migliori. D’altronde come dire di no – accantonati i proclami storici di antieuropeismo del Movimento Cinque Stelle, ora convertito sulla via di Bengasi – a chi ti sta beneficiando con la promessa di duecentonove miliardi di euro? Insomma, un papocchio incredibile quando si pensa alla liason recentemente germogliata tra la Libia e l’Egitto di quell’Al-Sisi contro il quale ipocritamente si tuona per il caso di Giulio Regeni. Il povero Corrado Augias, davanti all’incoerenza di chi governa il proprio Paese, avrebbe potuto tenersi quella Legion d’Onore che tanto aveva meritato! Ma lui, per nostra sfortuna, è fatto di altra ed ormai introvabile stoffa.
Che la politica sia il regno del possibile lo abbiamo appreso sin dalla più tenera età, ma qui siamo davanti a clamorosi esempi di una doppia morale senza pudore, e che conferma l’inaffidabilità degli attuali massimi reggitori dei destini italiani. Insomma, il malato adesso è in coma ed intorno al suo letto di dolore si strappano i capelli improbabili prefiche pronte a proclamare quanto la causa dell’impreparazione dell’Italia nell’era Covid non è stata Conte quanto invece le condizioni preesistenti del Paese e la brama di potere di Matteo Renzi. Quanto al primo argomento, esso è come al solito ambiguo e pretestuoso poiché se l’avvocato del popolo non può essere considerato responsabile di venticinque anni di mancate riforme, lo è certamente per la paralisi del Paese nel primo governo da lui guidato e dall’assoluta mancanza di competenza in quello che ancora per poco presiede.
In ordine al secondo elemento, perfino Massimo Cacciari, mai tenero verso il senatore di Scandicci, lo ha definito ridicolo, anche in considerazione della sproporzione tra la potenza dichiaratoria di Renzi e l’inconsistenza numerica del partito che ha fondato. Intanto anche il farmaco salva-vita che ha tenuto in piedi il governo, a partire dal concepimento del medesimo nel giugno del 2019, e cioè il timore della Destra al potere, pare aver perduto ormai ogni residua efficacia, anche in considerazione della diminuita dimensione unitaria dello schieramento – con Silvio Berlusconi in funzione di mediatore con l’area centrista presente in ampi settori del Partito Democratico, con Italia Viva e con Azione, il movimento in crescita di Carlo Calenda, candidato al Campidoglio nella prossima primavera.
Un antico proverbio recita: «mentre il medico studia, il malato se ne va». Tanto simile all’invettiva rivolta da ben più alto pulpito e con voce tonante dal Cardinale Salvatore Pappalardo nel 1982 durante i solenni funerali del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che avrebbe compiuto cento anni lo scorso settembre, davanti alla colpevole inerzia dello Stato in relazione al contrasto alla mafia; chi scrive era presente quella mattina nella chiesa di San Domenico, il Pantheon di Palermo, e le stragi di dieci anni dopo avrebbero confermato la profezia dell’Arcivescovo più esplicito che il capoluogo siciliano abbia mai avuto: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur».
Quel presule ci ha lasciato da tempo, ma è passato alla storia con la dirompente citazione da Tito Livio a proposito dell’indecisione della politica su temi e questioni di bruciante urgenza e sull’inadeguatezza che, sovente, la determina. Anche se i volti delle massime cariche del tempo presenti alla cerimonia apparvero afflitti da tale implacabile reprimenda ed ormai sbiadiscono nella memoria degli italiani, immutati rimangono comportamenti, omissioni e ritardi fatali.
E non sarebbe la prima volta, quando si vogliono ricordare le esitazioni delle democrazie occidentali alla Conferenza di Monaco, l’esitazione di William Gladstone che portò al massacro di Kartoum in Sudan nel 1884, il colpevole attendismo di Franklin Delano Roosevelt, nonostante il presidente fosse a conoscenza dei crimini nazisti già a partire dalla fine degli anni ’30, il ruolo di spettatore passivo assunto dalla Nazioni Unite dinanzi al genocidio dei Tutsi in Ruanda nel 1994, definito «uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’Umanità del XX secolo».
In politica come in guerra la capacità previsiva e la tempestività degli interventi sono le chiavi del successo in battaglia o, quantomeno, riducono i rischi di una totale disfatta. Non a caso poste entrambe sullo stesso piano dal generale prussiano Carl Von Clausevitz – ancora oggi lo stratega più studiato nelle accademie militari – con l’unica differenza dei mezzi impiegati. Concetti fatti propri dal management internazionale che ascrive alle capacità di visione di ampio respiro e di leadership illuminata il successo aziendale, ma largamente ignorati dalla politica italiana, sclerotizzatasi dagli anni settanta in poi nella gestione dell’eterno presente scandito da una quantità infinita di elezioni mai risolutive dei problemi strutturali del Paese.
Dove hanno fallito politici di lungo corso e con serie radici ideologiche, non si poteva sperare in alcun diverso esito con un governo di incompetenti appoggiato da una maggioranza di parlamentari sorteggiati dai partiti, né la modesta statura di Giuseppe Conte avrebbe potuto migliorare la media nazionale. Che fare allora quando gli ultimi spasmi di questo governo avranno termine? È pronto il Paese per una nuova cultura politico istituzionale in grado di rispondere a domande ancora non poste anche se intuibili dalla direzione verso cui va il mondo?
Sino a ieri ogni possibile risposta era subordinata alla debolezza strutturale dell’economia italiana: sempre stritolata dall’assenza di risorse naturali, è stata costretta a sviluppare una capacità manifatturiera che però presuppone la presenza di un mercato internazionale in cui essere protagonisti non solo attraverso qualità dei prodotti ma soprattutto con l’affidabilità richiesta dagli investitori esteri, invogliati dal pieno funzionamento della burocrazia, della giustizia civile, dell’internazionalizzazione di competenze originariamente artigianali. Oggi, e per l’ultima volta, quell’obiezione può essere affrontata con la disponibilità di una valanga di denaro che, parte in prestito e parte a fondo perduto, si riverserà sull’Italia ad un’unica condizione: il rispetto delle finalità più generali su cui NextGenerationEU è fondato e il cui raggiungimento postula la più grande rivoluzione di sistema mai concepita dall’Unità d’Italia.
L’infinito dibattito che attraversa il Paese da decenni in ordine a come conciliare coesione sociale, solidarietà, riduzione delle diseguaglianze tra i cittadini e massimamente tra Nord e Sud della penisola, con le riforme necessarie a garantirne la competitività in termini economici non potrà essere risolto con le soluzioni statalistiche fin qui adottate nelle vicende riguardanti Alitalia, l’ex Ilva e con le prossime che si prospettano anche nel settore del credito. Un costante assalto alla Cassa Depositi e Prestiti e una grave ipoteca sui risparmi dei cittadini.
In un mercato borsistico presidiato per oltre il 50% da proprietà pubbliche, fa riflettere quanto dichiarato dal Presidente di Confindustria Cesare Bonomi al momento del proprio insediamento: «Un conto è chiedere un freno alla corresponsione dei dividendi, altro e del tutto inaccettabile è avviare una campagna di nazionalizzazioni dopo aver indotto le imprese a iperindebitarsi. Siamo contrari a sottoporre a sostegni pubblici la liquidità delle imprese a condizione che poi lo Stato possa decidere di convertirli in una presenza diretta o nazionalizzare. Mentre lo Stato chiede per sé in Europa trasferimenti a fondo perduto a noi chiede di continuare a indebitarci per continuare a pagare le tasse allo Stato stesso. La tentazione di una nuova stagione di nazionalizzazioni è errata nei presupposti e assai rischiosa nelle conseguenze, sottraendo risorse preziose alle aziende per soli fini elettorali».
Eppure c’è tra le forze di maggioranza chi ancora coltiva l’illusione di un paese autarchico, avverso alla cultura del merito, orientato all’appiattimento delle carriere e dei salari, sostanzialmente chiuso in una catena di bunker davanti alla competizione internazionale, come lo fu un tempo l’Albania di Enver Hoxha. Sappiamo bene come sia finita.
L’indecisione su chi e su cosa vogliamo diventare entro il prossimo decennio è la patologia che affligge il malato italiano, costringendolo nell’immobilità causata dalle fasce che lo avvolgono per nasconderne le piaghe e più essa si perpetua maggiore è il ritardo che si accumula nei programmi scolastici ed universitari, durante i quali si formano il pensiero e le competenze dei cittadini di domani, nei processi di re-engineering della produzione, nelle politiche fiscali e della giustizia civile, nelle modalità di selezione delle classi dirigenti.
Dopo ciò che stiamo vivendo dal 2013 sarà ancora possibile in futuro accedere al Parlamento ridotto e soprattutto essere esponenti di governo senza alcun previo accertamento da parte dei partiti responsabili delle candidature di requisiti minimi di competenza, di titoli di studio accompagnati da documentate esperienze di impegno sociale e civile oltre che di palese e riconosciuta onorabilità? Può mai nuocere tutto ciò alla rappresentanza, posto che la medesima non è prevista né per la disonestà né per l’ignoranza?
Talvolta mi trovo a riflettere sul destino del deputato europeo del Partito Democratico, Pietro Bartolo, a lungo considerato, prima dell’avvento di virologi ed epidemiologi variamente sponsorizzati e sovente ben pagati per i propri interventi in televisione, il medico più amato d’Italia per l’abnegazione e l’umiltà con cui per decenni e in silenzio ha svolto la propria missione nella trincea più avanzata d’Europa. Da quando siede a Strasburgo, non se hanno più notizie. Perduto tra i peones, penserà ogni tanto al grave errore commesso in buona fede abbandonando una terra a cui dava moltissimo per un non luogo dove deve sottostare alle logiche dell’appartenenza? Ecco, qui l’ignoranza non c’entra, ma le scelte dissennate dei partiti certamente sì.
È dunque nei soggetti tutelati dall’articolo 49 della Costituzione (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, ndr) che si annida il bacillo dell’inconsistenza della politica che finisce poi per contagiare le Istituzioni e determinare il destino di un paese.
Il paradosso consiste nel fatto che, pena il rischio di pericolose involuzioni democratiche, nessuno può e deve interferire con scelte che sono e rimangono interne alle strutture dei singoli soggetti politici; nessuno, tranne i cittadini che possono operare tra di essi una precisa distinzione dei comportamenti tenuti al riguardo, facendo mancare ai più superficiali la militanza e il consenso per convogliare entrambi su quelli che si dichiareranno in tal senso e si renderanno disponibili a verifiche periodiche e puntuali. È ora forse di ribaltare un diffuso convincimento: non sono i partiti ad avere il potere sui cittadini quanto questi ultimi a decretarne il successo o il declino sulla base di precisi imperativi morali. Nel terrore che questa consapevolezza prevalga, i partiti si stanno affannando ad anestetizzarla con ogni sorta di ristori e provvidenze, a debito, e di regalie clientelari a questa o a quella corporazione.
Fino a quando la lucidità rispetto a ciò che sta accadendo non pervaderà il Paese, continueremo ad assistere al guizzare di sardine presto divorate dagli squali, all’ascesa all’orizzonte di stelline subito ottenebrate dall’ossessione del potere e più modestamente di un posto ben retribuito, mentre l’incedere dei ras dei partiti tradizionali continuerà a risuonare nel corridoio dei passi perduti; e ciò fino a quando i cittadini, sempre più disorientati ed oggi impoveriti ed impauriti, svenderanno al primo offerente quel mobile divenuto ingombrante che, nonostante gli ammonimenti di Platone, i greci vollero chiamare Democrazia.
Queste sono dunque sono le ombre che aleggiano intorno al letto del paziente italiano, ancora indeciso se lasciarsi andare o pretendere pervicacemente, in uno stolto accanimento terapeutico, le cure palliative che ne perpetuino l’infinita agonia. Noi che non possediamo alcun’altra arma se non il racconto del quotidiano e palese avanzamento del male, non vediamo l’ora che il malato riposi in pace. Faremo presto ad elaborare il lutto e volteremo finalmente pagina. Non «ce lo chiede l’Europa» lo pretendono i nostri figli ormai adulti e i nipoti che ancora nulla sospettano di ciò che, con sommo egoismo, abbiamo posto sulle loro spalle innocenti.