Un anno troppo grande per essere messo in una sola parola. È l’opinione dell’Oxford English Dictionary, che a novembre ha annunciato di aver gettato la spugna e rinunciato a scegliere il vocabolo simbolo del 2020. Ce ne sono tanti, troppi, molti ma non solo in ambito medico. E tutti, o quasi, resteranno nella coscienza linguista e collettiva dei prossimi anni.
Il primo che viene in mente è, senza dubbio, lockdown. La chiusura di tutto, lo stop totale mai visto prima, il silenzio per le strade. Parola inglese che in Italia ha subito cambiato accento (adesso sarà per sempre lockdàun) e si è conteso il primato con il più tradizionale quarantena, dal sapore storico e forse troppo rassicurante. Coronavirus era già apparso alla fine del 2019 (con il consueto girotondo di battute che oggi lasciano un certo imbarazzo), epidemia è stato subito surclassato da pandemia, globale e senza scampo.
In quei mesi tutti hanno iniziato ad adoperare con scioltezza concetti mai incontrati prima. Il paziente zero, il sequenziamento genetico, lo spillover, la curva dei contagi (che va abbattuta), il Dna e l’Rna, il picco e il misterioso distanziamento sociale, che rima con assembramento.
Meglio usare la mascherina, le cui sigle (Ffp1, Ffp2, Ffp3) hanno composto metà delle conversazioni. Il contagio è diventato quasi sinonimo di contatto, di cui poi è arrivato il tracciamento (si fa bene in Corea del Sud ma non qui), insieme una malconcia app Immuni, ma il modo più sicuro per sapere se si è positivi (cioè male) o negativi (cioè bene) è il tampone, insieme al test sierologico, gli anticorpi e i maledetti sintomi.
Intanto, tra i droplet e l’aerosol si sono scoperti nuovi scioglilingua come l’idrossiclorichina, il remdesivir, il tocilizumab. In mezzo arrivavano le zone rosse, i Nuovi Dpcm (sigla tra le più cercate su Google), i congiunti, le restrizioni, il bollettino delle 18.
E la potenza di fuoco? E il governo che non lavora con il favore delle tenebre? L’Europa, nonostante i frugali, ha messo in campo il Recovery Fund, poi Recovery Plan e infine NextGenerationUe, per il quale serve un piano.
Tutte espressioni che si sono sovrapposte alle autocertificazioni, al dubbio su domicilio e residenza, alla movida, al coprifuoco. Fino allo smart working (e il southworking), da Zoom, da videochiamata e «sei su on» e «non ti si vede», tutto compreso nella Dad, cioè la didattica a distanza.
Passato il plateau, la fase 2, la fase 3, il rilancio la ripresa, il bonus e, udite udite, i ristori, qualcuno ha (stra)parlato anche di dittatura sanitaria, a metà tra la prima ondata e la seconda (in attesa della terza). E poi sono esplose le proteste negli Stati Uniti, Black Lives Matter è diventato espressione di uso corrente, forse un po’ meno cancel culture, ma tutti hanno in mente le statue abbattute e il dibattito su Indro Montanelli. E se blackface è rimasto ai margini la frase di George Floyd, «I can’t breathe», la ricordano tutti.
In un mondo in cui tutti sono diventati epidemiologi, o virologi (e sanno più o meno cosa significano queste parole) un attimo, seppur triste, di normalità, l’ha restituita l’espressione pibe de oro.
E quando il 2020 (che è forse la miglior parola dell’anno) sembra ormai aver esaurito le sue cartucce con le elezioni americane (voto postale, brogli, decenza) e soprattutto l’annuncio del vaccino, il governo riesce a sorprendere tutti con Cashback di Stato. Come più o meno tutto il resto quest’anno, è un disastro. Sono tutte le parole imparate, usate, abusate nel 2020. Termini che restituiscono la fotografia, sempre inesatta, di cosa sono stati questi 12 mesi. Tranne una, che preferiamo non citare.