Sul filoLa serie più bella degli ultimi mesi è fatta soltanto di conversazioni telefoniche

“Calls”, uscita su Apple Tv + è un esperimento di nove puntate di 20 minuti ciascuna. Sono episodi brevi, ma durano abbastanza per costruire un mondo parallelo simile a quello in cui viviamo. Errori e dolori compresi

Fotogramma da Calls

Una serie anomala che parla di cose anomale, fatta soltanto di conversazioni telefoniche e situazioni paradossali. Ma “Calls”, scritta e girata (si fa per dire) dall’uruguaiano Fede Álvarez e uscita per Apple Tv +, che conta solo di nove episodi di 20 minuti circa, è uno dei pochi esperimenti originali degli ultimi tempi.

Sono 180 minuti da vedere o, meglio, ascoltare in un’unica sessione, quasi calandosi – questa è la sensazione – in una intercettazione continua, fatta di dialoghi fulminei, trascritti sullo schermo frase per frase, accanto ai nomi degli interlocutori, in mezzo a un tappeto visivo di geometrie e colori dall’effetto – se si può dire – mesmerizzante. Le voci sono autorevoli: Nick Jonas, Lily Collins, o Pedro Pascal (e altri).

A parte due indicazioni di contesto, ogni storia si apprende da ciò che si dicono i protagonisti: Sara chiama Tim, e gli dice che le manca. Anche lei a lui, conferma. Ma poi sente anche Camila, che si definisce sua «manager e fidanzata». Sara non risponde più.

Sono quadri istantanei, con ritmi incalzanti (per sopperire all’assenza di immagini) su situazioni banali che, però, battuta dopo battuta, prendono pieghe oscure e finiscono nel paranormale. Finisce che ci si trova in una riedizione di Black Mirror, ma come se venisse ascoltato da dietro a una porta.

I personaggi si chiamano, si richiamano, si lasciano in stand-by, a volte vengono interrotti, spesso si sentono urla, la linea è disturbata. Intanto avanza l’inverosimile, la logica scolora: Floyd chiama il 911 per autodenunciarsi (ha appena sparato a Darlene, la sua ragazza che lo stava lasciando) e la stessa Darlene lo richiama in quel momento. Come è possibile? Oppure si scopre che Skyler guida nel deserto, di notte, per riuscire a contattare la madre. Ma perché va fino a lì?

È una nuova realtà parallela, che svela di puntata in puntata le sue regole o – meglio – i suoi caratteri generali. Un gioco, in un certo senso. Perché la sostanza della serie, di ogni puntata e ogni conversazione è piuttosto l’intreccio doloroso dei sentimenti. I dialoghi parlano d’amore e rivelano infedeltà (il triangolo è la forma, tra le geometrie mesmerizzanti sopracitate, che ricorre di più).

Oppure raccontano mancanze, pentimenti, paure e sensi di colpa. Mark scopre che Rose è incinta e fugge nel deserto. Patrick sogna una nuova vita. Perry, dall’aero che sta pilotando in mezzo a una tempesta, chiama la figlia Kaya solo per cantarle una canzone.

Così “Calls” condensa, come un’antologia, tutte le possibili scelte sbagliate che si possano fare nella vita. E nella sua declinazione fantascientifica (per analogie bussare a Hervé Le Tellier) rivela il desiderio di poterle cambiare: tornando indietro, riparando ai torti fatti e subiti, dedicandosi agli affetti veri. Cioè arrivando a ribaltare l’ordine naturale delle cose, anche a costo – alla lettera – di far collassare l’universo intero.

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