Se cerchiamo la parola pizza su Google, ci troviamo davanti a oltre un miliardo di voci. Un numero, questo, che ci dà la dimensione di quanto sia grande e diffuso questo fenomeno gastronomico. Niente male per una pietanza nata per testare il calore del forno dei panettieri. Marino Niola, nel libro “Pizza” (Slow Food Editore) definisce questo alimento «il pronto soccorso dello stomaco. Colazione, pranzo e cena in dose unica per saziare la fame del popolo napoletano, fornito di stomaco forte e poca moneta». Oliviero Toscani ha proclamato la pizza migliore oggetto di design del pianeta, assieme ai jeans, «con la differenza che dei jeans si può fare a meno». Portata in tavola sin da tempi antichissimi – si dice che a inventarla furono addirittura gli Egizi – la pizza oggi è presente con questo nome in tutti i vocabolari del mondo, senza bisogno di traduzioni. Ma le sue interpretazioni, dentro e fuori i confini nazionali, sono tantissime. In occasione del World Pizza Day del 17 gennaio, ecco tutti i tipi di pizza che possiamo mangiare in Italia.
Pizza napoletana
La pizza napoletana è stata codificata negli anni Ottanta attraverso la fondazione dell’Associazione verace pizza napoletana, che ne ha istituito disciplinare e regolamento attuativo. Nel documento si legge: «È riconosciuta la denominazione del prodotto tipico “Verace pizza napoletana”, il cui uso è riservato ai due tipi di pizza marinara (pomodoro, olio, origano e aglio) e margherita (pomodoro, olio, mozzarella o fior di latte, formaggio grattugiato e basilico) […]. Dopo la cottura, la Verace pizza napoletana si presenta come un prodotto da forno tondeggiante, con diametro variabile che non deve superare 35 cm, con il bordo rialzato (cornicione) e con la parte centrale coperta dai condimenti. Tale parte centrale sarà spessa 0,4 cm con una tolleranza consentita pari a più o meno 10% e con un condimento dove spicca il rosso del pomodoro, cui si è perfettamente amalgamato l’olio e, a seconda degli ingredienti utilizzati, il verde dell’origano e il bianco dell’aglio, il bianco della mozzarella a chiazze più o meno ravvicinate, il verde del basilico in foglie, più o meno scuro per la cottura. Il cornicione dovrà essere di 1-2 cm, regolare, gonfio, privo di bolle e bruciature e di colore dorato. […] Deve essere morbida, elastica, facilmente piegabile a libretto, dal sapore caratteristico derivante dal cornicione, che presenta il tipico gusto del pane ben cresciuto o ben cotto, mescolato al sapore acidulo del pomodoro che, persa la sola acqua in eccesso, resterà denso e consistente dall’aroma, rispettivamente, dell’origano, dell’aglio o del basilico e al sapore della mozzarella cotta». In versione ridotta, la pizza napoletana, facile da piegare in quattro parti, si trasforma in pizza al portafoglio, venduta in chioschi e consumata come cibo da passeggio.
Come scrive Luciano Pignataro nel libro “La Pizza. Una storia contemporanea” (Hoepli), la pizza napoletana si distingue in maniera netta e precisa da ogni altra forma di lievitato cotto in forno. Ma nel mondo della pizza napoletana possiamo rintracciare anche stili diversi. C’è la pizza “a ruota di carro”: «È lo stile della famiglia Condurro», scrive Pignataro, «che si è affermato nella zona dei Tribunali da oltre un secolo». La pizza è soffice ed elastica, trasborda dal piatto e va mangiata in pochi minuti. Poi c’è “la pizza dei signori”, quelli che hanno dato vita alle pizzerie-ristoranti. Ha una quantità maggiore di mozzarella e viene servita su tavoli con tovaglia e consumata con forchetta e coltello. Enzo Coccia ha ribaltato il concetto del «tanto è sempre buona», puntando su ingredienti di qualità per condimenti e impasto. La pizza “ad alta idratazione” è stata l’ossessione della famiglia Salvo, che ha lavorato per portare l’elasticità a limiti estremi. C’è anche lo stile “canotto”, in cui il cornicione è molto pronunciato e alveolato: è diventato il tratto distintivo della nuovissima generazione di pizzaioli, tra cui Francesco Martucci e Diego Vitagliano.
Pizza romana
Anche la pizza romana rappresenta una storia di cibo povero e popolare. Nella Capitale la pizza non è una, ma “trina”. La prima tipologia è quella cotta nel forno del pane. Si compra a “sleppe” (fette o tagli), è un po’ scrocchiarella ed è bianca (con l’olio) o rossa (con solo pomodoro). A rendere famosa la pizza del fornaio sono stati i fratelli Roscioli, con il loro forno di via Chiavari in pieno centro storico. Così, mentre a Napoli la pizza ha un suo forno dedicato, con la bocca a mezzaluna e la sua temperatura di 480 gradi, quella romana condivide con il pane i suoi 360 gradi e il suolo. Qui perde umidità perché ha bisogno di più tempo per cuocere, divenendo più croccante. È qui che nasce anche la pizza alla pala, versione più ricca delle originarie bianca e rossa, infornata appunto con la pala e guarnita con ogni tipo di ingrediente, come accade oggi anche nelle rosticcerie.
Poi c’è la pizza in teglia, figlia delle rosticcerie dove si friggevano i supplì e i filetti di baccalà, oltre a cuocere i polli allo spiedo. Negli anni Settanta e Ottanta si inizia a cuocere la pizza in teglia, anche qui bianca e rossa. Ben presto si aggiungono la mozzarella o il formaggio per ottenere la margherita, aprendo la strada a tanti tipi diversi di farciture, tra cui quella patate e mozzarella, tra le più famose a Roma. Qui si sceglie la grandezza del trancio e il condimento, si pesa (ogni pezzo ha un prezzo diverso) e si consuma appoggiati a un tavolino alto o per strada. Tra i maggiori esponenti della pizza in teglia nella Capitale c’è Gabriele Bonci, che nel suo Pizzarium ha lavorato moltissimo sia sui tempi di lievitazione, prima fermi tra le 5 e le 6 ore, sia sulla qualità delle materie prime.
Infine, c’è la pizza tonda, servita al tavolo insieme a primi e secondi in trattorie di quartiere. Ne “Il ventre di Napoli”, Matilde Serao documenta la nascita delle prime pizzerie a opera di un industriale napoletano, certo di poter intercettare la voglia di pizza dell’ampia colonia di napoletani a Roma. Ma l’affare non andò come sperato. Infatti, non c’era l’abitudine a consumare alimenti elastici e soffici, ma si ricercava la croccantezza della pizza più “asciutta” del fornaio o della sua versione bassa. Alcune trattorie propongono un disco “scrocchiarello”, cotto in forno a una temperatura più bassa. La pizza romana si presenta sottile, senza cornicione, friabile e croccante. Tra i luoghi di culto di questa versione della pizza c’è Panattoni ai Marmi, su viale Trastevere, altrimenti noto come l’Obitorio. Anche qui i pizzaioli contemporanei come Giancarlo Casa di Gatta Mangiona hanno contribuito a migliorare ingredienti e lievitazione, imponendo l’idea di una pizzeria meno superficiale. Tra gli esponenti della moderna interpretazione della pizza romana, bassa bassa e scrocchiarella, c’è L’Elementare – Trastevere, insegna creata da Mirko Rizzo usando due sole coordinate: “ricordo” e “rispetto”.
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Pinsa
Una menzione la merita anche la pinsa. Il nome è stato registrato nel 2001 dall’imprenditore romano Corrado Di Marco, titolare dell’omonima azienda. A differenza della pizza alla pala, è fatta con lievito madre e un mix di farine di frumento, soia e riso. Richiede lunghi tempi di lievitazione e, per questo, è molto digeribile. Nata come prodotto di nicchia, è arrivata infatti a contare in tutto il mondo più di 5.000 pizzerie a essa dedicate, con la costituzione di un albo dei pinsaioli, curato dall’associazione Originale pinsa romana, creata dallo stesso Di Marco.
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Trapizzino
Roma ha dato i natali anche a un’altra, anche se meno tipica, versione della pizza: il Trapizzino. Brevettato da Stefano Callegari, è un angolo di pizza bianca, chiusa sui lati, farcito con le ricette simbolo della cucina internazionale, italiana e romana. L’impasto è a base di farina di grano tenero e lievito. Tra i gusti più famosi ci sono pollo alla cacciatora, coda alla vaccinara, polpette al sugo e persino lo zighinì alla picchiapò, tipica ricetta della Capitale.
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Pizza al tegamino
La pizza al tegamino è la versione tipica del Piemonte. Detta anche al padellino, è stata creata da un pizzaiolo che, negli anni Trenta, desiderava velocizzare i tempi di preparazione. L’impasto è simile a quello della pizza napoletana, ma non viene cotto sul suolo del forno, bensì in padelle di alluminio o ferro del diametro di 20-25 centimetri. La pizza al tegamino è parzialmente condita con passata di pomodoro e poi fatta riposare, prima di essere completata e cotta. Si presenta più alta e soffice rispetto alle altre tipologie descritte finora, tanto da arrivare a somigliare a una focaccia (se non altro perché riposa in una teglia di ferro per 24 ore). In più, la base è croccante grazie allo strato di olio con cui si cosparge il fondo, per evitare che l’impasto si attacchi. Anche se inizialmente veniva preparata solo alla marinara, oggi la pizza al padellino è protagonista di tanti locali, che rimangono per lo più concentrati a Torino.
Pizza fritta
La pizza fritta è stata l’ancora di salvezza a cui i napoletani si aggrapparono durante la Seconda guerra mondiale. Erano anni difficili, la fame era tanta. Fare la pizza fritta non richiedeva né forno né legna: bastava un pentolone con dell’olio e l’impasto. È così che in tanti sopravvissero, aprendo friggitorie improvvisate davanti alla porta di casa. Negli anni Novanta la pizza fritta non andava molto d’accordo con diete e nutrizionisti. Ma Enzo Coccia è riuscito a recuperare questa preparazione, rendendola più salutare con una lunga lievitazione e ingredienti di altissima qualità.
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Sfincione
Anche la Sicilia ha una sua versione della pizza: lo sfincione. Nato a Palermo, può essere considerato l’antenato della pizza al trancio. Si dice che il suo nome derivi dal latino spongia, che significa “spugna” e si rifà alla caratteristica morbidezza dell’impasto. Lo sfincione è alto, il suo fondo è croccante, mentre la parte lievitata è soffice. Qui è necessaria una doppia lievitazione: la prima dopo aver lavorato gli ingredienti e formato la tipica palla di pasta; la seconda dopo averla stesa in teglia. Lo sfincione viene cotto in forno a 250 gradi, poi venduto a tranci rettangolari, condito con pomodori pelati, cipolla, acciughe, origano, caciocavallo e pangrattato. Questo protagonista indiscusso dello street food siciliano è anche incluso nel registro dei PAT del Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali.
Sardenaira
Simile alla francese Pissaladière, la Sardenaira è un impasto ligure, tipico di Sanremo e di tutta la provincia di Imperia, che si colloca a metà tra una focaccia e una pizza. L’impasto è realizzato con farina, maizena, lievito di birra, sale, zucchero, olio extra vergine d’oliva e acqua tiepida. Viene condita con aglio, olive taggiasche, pomodoro (ingrediente che la discosterà dalla “cugina” provenzale), acciughe, capperi, basilico e un filo di olio evo. C’è anche chi ci aggiunge la cipolla. Inoltre, lo spessore può variare a seconda dei gusti di chi la prepara: per questo si può trovare anche in versione un po’ più alta di una normale pizza in teglia rettangolare. La Sardenaira deve fare una doppia lievitazione, di cui una in teglia. Ha una base croccante dovuta all’olio presente sul fondo del testo rettangolare. Viene servita in pezzi quadrati, sia calda sia fredda. In passato la Sardenaira si preparava soprattutto il venerdì, giorno di magro. Ogni madre di famiglia portava a cuocere la sua preparazione in un forno del centro storico di Sanremo. Come ancor oggi il nome del piatto ricorda, a far parte del condimento erano per lo più le sardine. Ma dal Secondo dopoguerra furono sostituite con le acciughe sotto sale, pesce più nobile e dal sapore più piacevole.
Nuove ondate: la scuola veneta e l’apulian wave
Più che di “pizza veneta”, è più opportuno parlare della “scuola veneta” che ha impresso a questo alimento una rivoluzione. Il più importante esponente di questi cambiamenti è stato Simone Padoan, che insieme a Renato Bosco e Lello Ravagnan hanno puntato tutto sull’attenzione agli ingredienti. Si potrebbe chiamare questa versione “pizza gourmet”, ma sarebbe troppo semplicistico. A cavallo del nuovo millennio, Padoan crea la sua prima pizza degustazione, da servire a spicchi al centro del tavolo. Questo cibo diventa così uno strumento di condivisione e di esperienza del gusto, che mette alla prova il pizzaiolo nella preparazione di ogni singolo ingrediente e accostamento. Pignataro paragona Padoan a Gualtiero Marchesi e ad Alfonso Iaccarino, definendolo uno dei più grandi innovatori della cucina italiana. I motivi sono due. Innanzitutto, è stato il primo a pensare che la pizza si potesse preparare con materie prime di altissima qualità. Inoltre, Padoan non è partito dall’impasto, ma dalla farcia, abbinando le giuste farine a ciò che si andava a proporre come cucinato. A questi concetti, il suo ristorante I Tigli ha aggiunto un servizio attento e una carta di birre e vini. Grazie a lui, pretendere una pizza ben lievitata, digeribile e “diversa” non è più stata una pretesa impossibile.
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Nel 2012 la Libera unione commercianti Apulia tentò di codificare l’Autentica pizza barese. I requisiti di base richiedevano l’utilizzo di farine, olio evo, mozzarella fiordilatte e pomodori pelati pugliesi, insieme al sale di Margherita di Savoia. In più, la pizza doveva essere croccante, facilmente piegabile, digeribile e dal basso indice glicemico. Ma dopo la conferenza stampa di presentazione alla Fiera del Levante di quell’anno, questo disciplinare è rimasto lettera morta. Tuttavia, nel corso del tempo, i pizzaioli pugliesi sono diventati più attenti e hanno iniziato a studiare le tecniche dei “vicini” campani e dei pizzaioli veneti. Hanno così dato inizio a una apulian wave della pizza, con esponenti di spicco come Andrea Giordano di Lievito 72 (Trani) o Andrea Godi di 400 Gradi (Lecce). Interessanti anche i dischi focacciati di Giuseppe Riontino, che nella nuova apertura di Margherita di Savoia ha puntato su pizze da degustazione.