De bello gaelicoL’indipendentismo scozzese era Nicola Sturgeon, ora deve sopravviverle

L’annuncio delle dimissioni della prima ministra segna la fine di un’era nella contrapposizione con Londra. Sfumato l’obiettivo del nuovo referendum, il campo autonomista deve trovare una nuova strategia, mentre i laburisti sperano di avanzare alle prossime elezioni

La prima ministra scozzese Nicola Sturgeon annuncia le dimissioni
Foto di Jane Barlow/Pool photo via AP

Nicola Sturgeon è una di quelle leader con cui si finisce per identificare una causa politica. Sturgeon – soprattutto fuori dalla Scozia, nell’Inghilterra della Brexit malfunzionante o per l’opinione pubblica straniera – era l’indipendentismo scozzese. Lo impersonava. Per converso, la sua straordinaria popolarità ha giovato a quella battaglia e lo ha fatto a lungo. Il ciclo, secondo la prima ministra dimissionaria, è però arrivato al punto di rottura, quello in cui il volto più rappresentativo dell’autonomismo rischiava di nuocere all’obiettivo finale più di quanto non lo avvicinasse. Lascia il partito, lo Scottish National Party (Snp), in uno stallo simile: ha riposto nella secessione la sua ragion d’essere elettorale, cui deve i trionfi dell’ultimo decennio, senza interrogarsi sino in fondo sul “come” realizzarla.

Durante il discorso a Bute House, la residenza ufficiale, di mercoledì la premier ha dovuto combattere con le lacrime e l’emozione. Come il giorno prima, quando – così vogliono i retroscena – ha telefonato agli alleati di sempre. «C’è qualcosa che posso fare per farti cambiare idea?», le avrebbero chiesto. Niente da fare. La decisione era già presa. Forse è maturata contemplando la natura degli ultimi scatti sul profilo Instagram. Sulle Pentland Hills fuori Edimburgo, all’alba su Arthur’s Seat, l’antico vulcano vicino Holyrood, dove ha sede il Parlamento; sui rilievi delle Campsies, a Nord della terra natia. Gli aruspici da social, in quelle didascalie, intravedono una scelta sofferta. Gli editorialisti evocano Jacinda Ardern, il logorio del governo e la brutalità del potere, ma le stagioni politiche possono finire, anche senza avvisare.

Due referendum e cinque premier (inglesi)
Ne ha fatta di strada la ragazza di Irvine, sul mare, nell’Ayrshire. Si iscrive al partito a sedici anni. Tredici anni dopo è sconfitta nel collegio di Glasgow Govan, ma entra lo stesso a Holyrood grazie alla quota proporzionale dei seggi. Alle spalle ha già diverse sfide contro candidati considerati più forti, quando ancora i laburisti locali erano la prima forza della nazione. In quegli anni lo Snp è all’opposizione, di cui Sturgeon diventa capo nel 2004. Nello stesso anno è promossa vice degli autonomisti, in ticket con il suo mentore Alex Salmond, che la nomina vicepremier nell’esecutivo di minoranza del 2007. Ministra alla Sanità (2007-12) poi alle Infrastrutture (2012-14), nel 2014 il leader le assegna la campagna più importante, quella per il referendum d’indipendenza del 2014.

La secessione perderà alle urne: 55,3 per cento a 44,7 per cento. L’indipendenza è «una questione di quando, non di se», dice lei. Salmond si dimette e lei prende il suo posto. Alle politiche del 2015 si colorano del giallo dei nazionalisti cinquantasei dei cinquantanove seggi scozzesi a Westminster. Nel 2016, mentre l’Inghilterra vota per uscire dall’Unione europea, la Brexit resta minoritaria oltre il vallo di Adriano: il sessantadue per cento degli elettori sposa il «Remain». Edimburgo non si farà trascinare fuori dall’Ue contro la sua volontà, ammonisce la prima ministra. Da allora, organizzare un nuovo referendum d’indipendenza diventa la priorità di Sturgeon. Per i sei anni successivi, con la pausa della pandemia, il forcing di Edimburgo si concentrerà su questo punto. Invano.

Nel 2021 lo Snp si ferma a un seggio dalla maggioranza assoluta e la coalizione imbarca i Verdi. Un trionfo inutile. Quando, lo scorso autunno, la Corte suprema inglese ha negato al Parlamento scozzese l’autorità di indire un nuovo referendum, per cui serve l’assenso di Londra, la premier ha cambiato strategia. Avrebbe impugnato il risultato delle prossime elezioni, tra fine 2024 e inizio 2025, come «un referendum de facto». Alle ultime, nel dicembre 2019, il partito aveva intercettato il quarantacinque per cento dei consensi, terza forza di Westminster dopo conservatori e laburisti. Almeno nell’immediato, la linea dello scontro duro con la capitale potrebbe uscire di scena assieme a Sturgeon. Se ne va da più longeva premier – otto anni, tremila giorni – nonché prima donna a conquistare l’incarico. Era una costante nella politica britannica, contraltare all’instabilità delle faide dei Tories. A Downing Street sfilavano cinque ministri, lei continuava a regnare.

L’ultima domanda, i fondi scomparsi
Durante l’emergenza sanitaria del coronavirus, la sua gestione è stata più oculata dell’attendismo lassista di Boris Johnson. A capo di un partito condannato a vincere, ma non abbastanza da arrivare allo strappo decisivo, Sturgeon ha dovuto affrontare anche qualche scandalo domestico. Si è scontrata, scaricandolo, con il suo maestro Salmond, accusato di molestie sessuali (e poi assolto). Lui non le perdonerà il «tradimento» e fonderà una personale – e minuscola – sigla indipendentista, Alba Party. L’opposizione alla premier rimprovera comunque di non essere stata imparziale. La frattura ha indebolito il campo nazionalista, forse abbastanza da appannare il record di voti del 2021.

Nei grafici dei sondaggi, resta volatile il sostegno all’indipendenza, con sorpassi periodici di una o dell’altra posizione. Oggi il «sì» alla secessione è sotto, al quarantasette per cento; tra il gennaio e il novembre 2020, come lo scorso autunno, risultava invece maggioritario. Tra le ombre degli anni di Sturgeon c’è anche la presunta scomparsa di seicentomila sterline dalle casse del partito. L’amministratore di quelle finanze è Peter Murrel, suo marito. L’importo era stato raccolto attraverso donazioni tra il 2017 e il 2019, ma nel 2020 sui conti correnti risultavano solo 97mila sterline. A giugno 2021, Murrel ha «prestato» allo Snp 107mila sterline: notizia trapelata due mesi dopo. La polizia scozzese ha aperto un’indagine. L’ultima domanda della conferenza stampa dell’addio è stata proprio se gli inquirenti hanno interrogato la prima ministra. Lei ha rifiutato di rispondere.

Londra ha speso un veto anche sul «Gender Recognition Reform Bill» varato da Edimburgo. La proposta di riforma avrebbe consentito a chi ha più di sedici anni d’età di cambiare legalmente sesso senza bisogno di un consulto medico. Ha fatto rumore, nella cannibalizzazione dei tabloid, il caso di un uomo condannato per due stupri che avrebbe voluto avvalersi della norma per essere trasferito in una prigione femminile. Negli anni di Sturgeon, la Scozia si è distinta per leggi femministe, come la fornitura gratuita di assorbenti alle donne. L’annuncio delle sue dimissioni è stato festeggiato dall’ex presidente americano Donald Trump, che la ritiene un’esponente dell’ideologia woke: «Questa pazza di sinistra simbolizza tutte le cose sbagliate delle politiche dell’identità». Una medaglia postuma al suo operato.

Finisce un’era per l’indipendentismo
Non sono state le «pressioni di breve termine» a portarla alle dimissioni, insiste la prima ministra. In primavera lo Snp doveva celebrare un congresso per pronunciarsi sul «referendum di fatto», la classe dirigente ora propone di «mettere in pausa» quel discorso. Va scelto un successore, prima. Nella squadra di governo, sono considerati papabili la titolare dell’Economia, Kate Forbes, o Angus Robertson (Costituzione e Cultura). Altri nomi, come l’ex leader John Swinney, sono usato garantito, ma legati al passato. Stephen Flynn, capogruppo a Westminster, piace alla minoranza, ma ha al momento escluso di candidarsi.

In attesa che il vuoto, almeno mediatico, dell’addio si riempia, i laburisti sperano di riconquistare terreno. Avanzare in Scozia fa parte della strategia di Keir Starmer per vincere le prossime elezioni. La vera prova di maturità per gli orfani di Sturgeon sarà dimostrare – a differenza sua – di avere un “piano B” oltre al referendum. La rinuncia di una presenza ingombrante potrebbe facilitare un approccio diverso. Un nuovo inizio, insomma. Con i non più rimandabili chiarimenti su quale tipo di futuro desiderino i nazionalisti per la Scozia indipendente: quale moneta, quali rapporti con Londra, come gestire il problema di un confine con l’ex madrepatria (quello irrisolto in Irlanda del Nord dopo la Brexit, per capirci).

Nella partita a scacchi con il governo centrale, le scadenze perentorie fissate da Sturgeon sono state via via rinviate o disattese. Chiedere il permesso a Londra non era un’opzione, eppure se ne rispettavano i pronunciamenti. Chi verrà dopo di lei si troverà a gestire la stessa sfida, e le stesse aspettative, senza la stessa popolarità. Sarà più difficile mantenere le percentuali ipertrofiche, ma il mandato di Holyrood scade nel 2026. Non è enfasi giornalistica scrivere che la prima ministra ha segnato un «prima» e un «dopo» nell’indipendentismo scozzese. Al punto da far dubitare che possa sopravviverle.

X