Il Partito democratico non si occupa della Rai da anni. Da un punto di vista strategico, s’intende, perché sin qui al massimo si è occupato – e piuttosto a casaccio – di nomine e sottonomine. L’ultimo dirigente a occuparsi seriamente del servizio pubblico è stato ormai molti anni fa Paolo Gentiloni (allora della Margherita) insieme a uno sparuto gruppo di parlamentari molto esperti (Roberto Zaccaria, Beppe Giulietti, Carlo Rognoni, Vincenzo Vita, poi Michele Anzaldi, Vinicio Peluffo e altri). E prima ancora (Pci-Pds) c’erano stati Walter Veltroni – il primo a capire che il mondo cambiava – il verde Mauro Paissan, Claudio Petruccioli e altri ancora, erano dei pionieri. Mentre Silvio Berlusconi aveva già fatto tutto quello che doveva fare per costruire la sua personale egemonia nel settore.
Le televisione cambiava sotto il segno della Fininvest e tuttavia c’era un pezzetto della sinistra che cercava di capire dove si andasse a parare. Il risultato è che c’era più pluralismo di oggi. Ora che il futuro è passato e tutto è cambiato, che fare? Non ha certamente torto Luca Rigoni su Linkiesta quando scrive che «[Elly] Schlein dovrebbe gestire, o meglio farsi gestire, siti, blog, Instagram, FB, Twitter, TikTok». Certo che andrebbe fatto.
Ha invece torto, secondo me, quando aggiunge: «Non la faccenda Rai». Ha torto perché questo è un Paese per vecchi. E i vecchi guardano la televisione, il Tg1 forma il consenso più di Facebook. E i vecchi votano, e più dei giovani. In più la Rai la paghiamo noi. Pensare che non conti niente solo perché i nostri figli la ignorano preferendo smanettare sugli smartphone è un errore.
Non è un caso se la prima cosa che ha fatto la nuova destra da quando è al governo è stata mettere le mani su viale Mazzini, dai vertici fini agli uscieri di Saxa Rubra. La fabbrica del consenso ha ancora i suoi ingranaggi più collaudati e funzionanti lì, a Saxa Rubra, nei casermoni a nord di Roma dove i nuovi direttori ogni giorno si ingegnano a realizzare scalette improbabili e a commissionare servizi abbastanza di parte, così che quei milioni di italiani che si radunano davanti alla solita cena di tutti i giorni guardano peraltro distrattamente i risultati dell’opera di Gian Marco Chiocci e Antonio Preziosi – direttori di Tg1 e Tg2 – infarcita di interviste a Francesco Lollobrigida e Gennaro Sangiuliano per non parlare della santificazione della premier.
Non c’è mai stata un’occupazione così sfrenata dell’informazione pubblica, mai. Era molto meglio quando la lottizzazione era a suo modo trasparente e anche attenta alla qualità. E poi il servizio pubblico radiotelevisivo è una cosa dello Stato, e lo Stato, più o meno, è diretto dal Parlamento, cioè dai partiti. Fino a che il modello è questo, è così.
La questione, dunque, è che della Rai si occupano solo alcuni partiti: è questo è un errore politico di chi se ne lava le mani per una sorta di snobismo radicaleggiante e “nuovista” ritenendo che così facendo ci si mostra diverso dagli altri e distante dalla pratiche della Prima Repubblica. È ovvio che non bisogna in nessun caso tornare agli eccessi di quegli anni (eppure che Rai che era!) ma nemmeno si può far finta di vivere sulla Luna mentre la maggioranza governativa sguazza in tutti i corridoi di Saxa Rubra.
D’altronde, sempre su Linkiesta, sono pubblicati stralci di uno studio di Guido Legnante, Moreno Mancosu e Cristian Vaccari (“Svolta a destra. Cosa ci dice il voto del 2022” – Il Mulino) in cui si afferma che «i cosiddetti media tradizionali (soprattutto la televisione), sono tutt’altro che morti, dato il numero rilevante, e tuttora prevalente, di elettori che li utilizzano come principale fonte informativa», e – cosa forse ancora più interessante – che all’ingrosso gli elettori di destra si informano di più con la televisione e quelli di sinistra sulle piattaforme: se è così, questo è un motivo in più per la sinistra di (tornare a) combattere in Rai e attorno alla Rai senza fare tanto gli schizzinosi.