Lovely Carlo De Benedetti, Rep e il viale del tramonto dell’editoria del Novecento

L’ex editore di Repubblica, ancora amareggiato per essersi fatto sottrarre il giornale da John Elkann, è disposto addirittura a difendere i suoi figli, che stima meno di quanto Logan Roy stimasse i suoi, pur di gridare quanto non gli piaccia il nuovo corso

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Molte sono le conversazioni ricorsive tra coloro che fanno i giornali, quasi tutte riguardano i giornali, quasi tutte spiegano benino perché ormai i giornali interessino quasi solo a chi fa i giornali.

Una delle più frequenti, persino più di quella «Cazzullo nuovo direttore del Corriere entro Natale, e se non entro Natale entro l’estate», è: ora vendono Repubblica. A questa presunta notizia che viene data ogni volta come non fosse la centesima e come stavolta fosse diverso te lo giuro stavolta lascia la moglie me l’ha promesso, nessuno fa mai l’obiezione logica: ma chi se la compra?

Mi è venuto in mente ieri, leggendo la succulenta intervista che Carlo De Benedetti, già editore appunto di Repubblica, ha dato a Salvatore Merlo, sul Foglio. A un certo punto De Benedetti dice una frase in cui ci sono tutte le ricchezze sputtanate della mia famiglia e degli aristocratici romani che conoscevo da giovane, tutta la nobiltà decaduta che ha ancora le magioni ma non può più pagare il riscaldamento, tutto il tempo andato che non ritornerà.

La frase, riferita a John Elkann (editore di Repubblica ma ormai soprattutto figlio dell’uomo che prese il fatal treno per Benevento), è: «Poi ha devastato pure Repubblica, che ancora si aggira tra i quotidiani italiani con la maestà malinconica delle rovine».

È perfetta. È Gloria Swanson che è ancora grande, è lo schermo che è diventato piccolo. È il giornale che fu di Pericoli e Pirella e di Eco e di Arbasino e che ora invece – i nomi di ora fateli voi, ché a me viene la malinconia. È “Lovely Sara”, il cartone animato che guardavo al liceo.

“Lovely Sara” è la storia della figlia d’un ricco commerciante che, mentre lei è in collegio a Londra, viene creduto morto durante un viaggio in India (almeno credo: sono quasi quarant’anni che non lo rivedo, potrei sbagliare qualche dettaglio).

Passata da ragazza ricca a orfana squattrinata (c’era un qualche cavillo per cui non ereditava, forse il padre aveva apparentemente fatto bancarotta subito prima d’apparentemente affogare), la ragazza viene passata da allieva modello a serva, e messa a vivere nelle soffitte del collegio. Quelle che prima le facevano gli inchini poco ci manca che le sputino.

In questa allegoria, la direttrice della scuola che schifa Sara allorché divenuta povera potrebbe essere Alessandro Baricco, che dopo tutti quegli anni da collaboratore di Repubblica ha ben pensato di significare il suo disprezzo verso le ex gloriose pagine culturali su cui scriveva dando al Corriere prima l’anticipazione di “Abel”, il suo ultimo romanzo, e poi quella del podcast che raccontavo l’altro giorno.

Al povero responsabile delle pagine culturali di Repubblica, già passato alla storia per essersi inventato la ficcante pagina fissa dedicata alle booktoker su Robinson (creando l’unico insieme completamente vuoto della storia dell’insiemistica: l’intersezione tra un inserto culturale da acquistare in edicola e TikTok; prossimamente, l’olio per motori in vendita nei maneggi), e alla cronaca pettegola per le crisi isteriche su Zoom collegato da località esotiche nell’agosto elkanniano, tocca pure la reiterata umiliazione di, a ogni nuovo Baricco, prendere il buco. Praticamente è Sara, già ereditiera e ora con lo straccio per i pavimenti.

Ma non distraiamoci, torniamo a Carlo De Benedetti, tra quelli che hanno la residenza altrove il migliore a spiegare l’Italia, basterebbe la definizione «quel giro di schiaffi che è il Pd» per sancirne la superiorità. Torniamo alla grandissima considerazione che CDB ha della gestione di Gedi: «A quel gruppo dirigente ho visto fare cose che manco nella cena dei cretini. Dicono “digital first” ma non hanno investito un centesimo in serie acquisizioni sul digitale, mentre hanno annientato la carta».

E qui, mentre disegno cuori su una foto di De Benedetti, ho molte domande. Perché nell’app della Stampa non è possibile fare una ricerca? Perché pur da abbonati paganti di Repubblica è impossibile aprire qualsivoglia articolo vecchio che si trovi in archivio? Perché l’archivio non lo valorizzano, permettendoci di leggere i vecchi Arbasino, i vecchi Eco, persino i vecchi Baricco, invece d’illudersi che pagheremo per leggere i nuovi (inserite voi i nomi)? Perché se scrivono una puttanata sulla carta (la settimana scorsa Furio Andreotti, lo sceneggiatore del film della Cortellesi, si chiamava Giulio) non approfittano della versione online per correggerla? (Sì, è passata una settimana ed è ancora Giulio).

Pur di dire quanto gli fa schifo la gestione Elkann di Repubblica, De Benedetti è disposto a difendere pure i propri figli, che credo stimi più o meno quanto Logan Roy stimava i suoi. Confesso una passione per uno dei figli di De Benedetti, quello che fotografa tartufi e si fa riprendere mentre fa sci d’acqua: con tutti questi arricchiti che vogliono salvare il mondo, ce ne vuole uno che pensi solo a spendere.

Al cui proposito. CDB dice che «John Elkann è riuscito in quattro anni a distruggere il gruppo editoriale che il principe Carlo Caracciolo, suo prozio, aveva creato in quindici anni». Ma, se accantoniamo per un attimo i Caracciolo e i quarti di nobiltà, e teniamo il lato Agnelli della faccenda, John Elkann è una quinta generazione. I soldi di famiglia sono già durati molto più di quanto accada abitualmente. Di solito la prima generazione li fa, la seconda li spende, la terza li finisce; alla quarta, si finisce in soffitta con lo straccio per pavimenti, vessati dalle ragazze ricche del collegio.

Certo, poi si scopriva che il padre di Sara non era mai morto e tanto meno era divenuto povero, arrivava a Londra a riprendersi la figlia tra carrozze d’oro e turbanti da marajà, ma tuttavia una domanda mi tormenta: i figli di Carlo De Benedetti che generazione sono?

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