Lotta di ciabatteElkann, Paltrow, il mio pigiama, e la finzione sulla fine delle classi sociali

I pantaloncini in albergo, il whisky giapponese, la cravatta texana in Parlamento, e l’ipocrisia di credere che abbiamo tutti diritto ad avere lo stesso tenore di vita

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Beati quelli che non erano senzienti nel 1992, perché a essi è risparmiato di ricordare il momento in cui tutto cominciò irreversibilmente ad andare a puttane. No, non parlo di Tangentopoli, quelle sono quisquilie: parlo di abbigliamento.

Al Senato non si poteva entrare senza cravatta, Francesco Speroni si presentò con al collo un laccio di cuoio sostenendo che fosse una cravatta texana: nel regolamento, spiegò come un sedicenne determinato a cavillare sull’orario di rientro, c’è scritto che non si può entrare senza cravatta, ma non che debba essere una cravatta italiana.

Fu quella la prima istanza in cui, senza che la civiltà gli si rivoltasse contro col vigore che avrebbe meritato, un adulto spacciò la propria pigrizia per indipendenza di pensiero, il non rispettare il dress code per simbolo di non si sa bene quale afflato rivoluzionario, e il dress code stesso per un sopruso.

Da lì fu tutta discesa, fino a un presente fatto di genitori che s’infuriano se a scuola ci vuole il grembiule e il loro puccettone non può esprimersi mostrando i jeans lacerati, femministe postmoderne che invece d’occuparsi di riformare la 194 reclamano il diritto d’andare in giro col culo di fuori senza che nessuno si permetta di guardar loro il culo stesso, e altre determinazioni a fingere che i vestiti non siano un linguaggio.

Finché si arriva a domenica, quando Alain Elkann intervista François-Joseph Graf, architetto di grandi alberghi. A Specchio, dorso di costume della Stampa, fanno il titolo con una frase di Graf, messa tra virgolette. La frase è questa: «I grandi alberghi vanno ripensati: non si può avere il personale in giacca e i clienti in ciabatte e pantaloncini».

L’internet, direbbero nei giornali, insorge. Come osa Elkann volerci privare del diritto a sciabattare in pubblico. Elkann, mica Graf: come scrivevo pochi giorni fa, al (non) lettore d’oggi mancano del tutto i codici per comprendere i giornali che si ostina a voler recensire, e quindi non è in grado di distinguere una frase dell’intervistato da una dell’intervistatore.

Certo, il (non) lettore ha letto solo il titolo fotografato su qualche social, ma una volta avrebbe comunque colto che il titolo tra virgolette d’un’intervista difficilmente è affermazione dell’intervistatore. Adesso, qualche (non) lettore l’altro giorno ha commentato proprio quel mio articolo sulla mancanza di codici (sorte, come sai essere ironica) rimproverandomi di non scrivere «io» ma «noi».

Ricevuta da me magnanima risposta sul mio uso sempre e solo della prima persona singolare, il (non) lettore ribatteva che «la prefazione» riportava un verbo al plurale. Effettivamente nel sommario c’era scritto «abbiamo». Quindi non solo il non lettore pretende di criticare articoli avendo letto solo il sommario, non solo ignora che quel sommario l’avrà fatto una redazione, ma quel sommario lo chiama «prefazione».

Non sto divagando dal tema, non quanto sembra. L’insofferenza per il dress code e la pretesa di parlare d’astrofisica sono espressioni della stessa finzione scenica: quella in cui vogliamo fortissimo credere che le classi sociali non esistano, che abbiamo tutti diritto a una voce in capitolo e a girare in ciabatte e ad avere lo stesso tenore di vita.

La settimana scorsa Gwyneth Paltrow – ragazza ricca, bionda naturale, cinquantenne più in forma di quanto io lo fossi a trent’anni, attrice con un Oscar, proprietaria di clamoroso guardaroba – ha fatto una sessione di domande su Instagram. Lo fa ogni tanto e sono i suoi unici momenti di avvicinabilità: GP non si finge una di noi (tranne quando si accorda con AirBnb per far stare qualche mortale nella capanna del giardiniere), e normalmente ha i messaggi bloccati. Puoi scriverle solo se ti segue: mica è Chiara Ferragni.

A un certo punto una domanda diceva: sto passando un momento difficile, hai qualche consiglio? Ho visto arrivare l’incidente da lontano. GP ha iniziato a rispondere, e io ho chiuso gli occhi come nei film horror e ho sperato che avesse la furbizia di suggerire rimedi alla portata di chiunque (ammesso che ne esistano), ma ovviamente no.

Rispondeva che nei momenti difficili cercava di essere più gentile con sé stessa, e come farlo variava da persona a persona, «per me è una passeggiata, un massaggio, riposarmi, farmi un bagno caldo tutte le sere; e, perché no, un whisky giapponese». Erano, in quel momento, quattro ore da quando aveva pubblicato il box domande, e i box domande scadono dopo ventiquattr’ore.

Ho pensato povera Gwyneth, ancora venti ore di «io non ho la babysitter e non posso andarmene a passeggio quando mi pare», venti ore di «e a chi non si può permettere la massaggiatrice non ci pensi», venti ore di «a me hanno tagliato l’acqua calda perché non guadagno abbastanza», venti ore di «ma quale whisky giapponese, non ti vergogni, stai cercando di invisibilizzare noi che al massimo il Tavernello». Venti ore di: come ha osato, Gwyneth Paltrow, ricordarci che le classi sociali esistono.

Mike Nichols diceva che agli inglesi interessa raccontare solo quello, le classi sociali, e – aggiungo io – dio o chi per lui li benedica per questo. Su RaiPlay c’è “Starstruck”, commedia romantica della Bbc di cui avevo già parlato, il “Notting Hill” al contrario in cui lui è una star del cinema e lei una ragazza qualunque. (Sul fatto che se fosse su Netflix ne parlerebbero tutti e siccome sta su RaiPlay nessuno se ne accorge c’intratteniamo un’altra volta).

La terza stagione, che ho visto solo ora, fa una cosa coraggiosissima sia per quella che è la struttura classica delle commedie romantiche sia per un prodotto che va in onda nel secolo determinato a fingere che le classi sociali non esistano: ci dice che le star del cinema devono stare con le star del cinema, e le ragazze qualunque con gli elettricisti.

Non perché l’ascensore sociale non funzioni; perché è inutile offrire l’intelligenza degli elettricisti alle star del cinema, non sapranno che farsene, e il professor Higgins e la fioraia non avevano niente da dirsi già due minuti dopo che era calato il sipario. (Lo so: vi mancano così tanto i codici che neanche sapete cosa guglare per scoprire che la fioraia si chiamava Eliza Doolittle).

Quando viaggiavo molto, c’erano parecchi alberghi di lusso a New York che vietavano di scendere a far colazione in pigiama, e io pensavo fosse una regola fatta proprio per discriminare me, che vado in pigiama persino nei bar in altri codici postali. Ma non ho mai pensato d’indignarmene.

E, se il dress code mi sembra un sopruso, non mi sembra mai tale nel senso in cui va la conversazione collettiva: la deputata cui viene rimproverato d’essere sbracciata mi pare innanzitutto una che non si attiene a una regola che le lavoranti alla Camera devono invece rispettare. Con la giacca hanno caldo anche loro, eppure la tengono. Siamo sicure che la libertà della deputata, o del turista in ciabatte, che accorriamo a difendere, non sia invece un approfittarsi del fatto che le regole si possono imporre solo al cameriere in livrea, che se si presenta in canotta ci rimette lo stipendio?

In un articolo su Repubblica del novembre 1993, Sebastiano Messina dice che il senatore Speroni «s’è finalmente messo la cravatta». Era trent’anni fa. Era già troppo tardi.

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