È una mattina di mezza estate, sono al tavolino d’un bar di Bologna dove m’illudo d’essermi seduta a riflettere sulla comunanza di collasso del contesto tra la moralina su “Temptation Island”, la moralina sull’apertura delle Olimpiadi, la moralina sulle intercettazioni d’un galeotto a colloquio coi genitori.
In realtà, come a ogni tavolo d’ogni bar o ristorante della mia vita, non riesco a concentrarmi su altro che sulle conversazioni ai tavoli vicini. Questo in particolare è un bar che in passato si è rivelato prezioso per spiegare una certa borghesia bolognese.
Per decenni, quando mi chiedevano di spiegare il sistema castale di quella città assurda, ho sprecato migliaia di parole. Poi un giorno ho visto un tizio rallentare per salutare un altro tizio seduto sotto al portico a bere il caffè. Era una tarda mattina: a Roma sarebbe stato normale, a Milano l’amico avrebbe detto all’amico qualcosa sull’essere al bar e non in ufficio. Il bolognese, illuminando il mio studio dei caratteri locali, aveva detto all’altro bolognese: sei sempre al bar, invece di andare a giocare a golf.
Insomma, è una mattina di mezza estate, e io sono lì che osservo un tavolino al quale è seduta una bella signora, capelli bianchi, una settantina d’anni. E uno che presenta a qualcuno che passa come «mio figlio Francesco», e quindi non è un marito più giovane né un amico con cui la signora s’è fermata a fare colazione.
Avrà quarant’anni, è vestito da quindicenne, ma questo sappiamo non voglia dire niente per gli adulti di oggi. Ha i calzoncini corti, i polpacci tatuati, una maglia smanicata con cappuccio, le braccia tatuate, il cappellino con la visiera portata all’indietro (non ne vedevo uno dagli anni in cui gli intellettuali consideravano Jovanotti un pirla il cui successo sarebbe durato tre quarti d’ora).
Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere un protagonista di “Temptation Island”, o uno di quelli che fanno la morale a chi guarda “Temptation Island” e non Alberto Angela; un entusiasta dell’épater les bourgeois della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, o un indignato per la stessa serata; uno che scrive sui social che è uno schifo pubblicare il contenuto del colloquio privato d’un detenuto, o uno che risponde vergognatevi, con quel che ha fatto ancora lo difendete, è uno schifo.
È impossibile individuare l’appartenenza ideologica e sociale di qualcuno dall’estetica, nell’epoca in cui i multimilionari hanno gli stessi tatuaggi dei galeotti e le popstar si fanno ai denti cose che li fanno essere perfetti per il casting d’un barbone in un film d’autore. L’estetica ha smesso d’essere un linguaggio; l’abbigliamento lo è ancora, ma non lo parla quasi nessuno e quindi non vale nulla, come ogni lingua senza parlanti: al massimo la persona media è in grado di dire se un vestito la slancia o no, mica capisce qualcosa di moda e relativi codici e quindi di cosa sta dicendo con quel che indossa.
Ma, e qui Borges avrebbe un’erezione, l’incomprensione è assoluta anche col codice più incontrovertibile che dovremmo avere, cioè le parole. (Lo so, il codice più incontrovertibile dovrebbero essere i numeri, ma quelli mi pare che li abbiamo persi persino prima delle parole, quando le stesse statistiche hanno iniziato a essere terra d’opposti opinionismi).
“Uomini e donne” così come lo conosciamo inizia a settembre del 2001 e ci mette due anni e mezzo ad arrivare sulla prima pagina del Corriere. In quegli anni io sono giovane e scema, e come aggravante scrivo tutti i giorni di tv: quando Aldo Cazzullo intervista Costantino Vitagliano, nell’aprile 2004, mi sembra tardissimo. È ovvio che tutti conoscano i tronisti, è ovvio che siano un fenomeno di cui non si può non tener conto se si vuole parlare dell’Italia di questo secolo, tzè (ogni tanto ho la sensazione che la principale attività dei miei cinquant’anni sia vergognarmi di quant’ero scema a trenta).
Il 2001 è anche l’anno in cui Alessandro Cecchi Paone (chiunque egli fosse) fa una piazzata durante i Telegatti, giacché quello per i programmi culturali l’ha vinto il primo “Grande fratello”. Venti o giù di lì anni dopo il momento in cui Angelo Guglielmi l’aveva spiegato così semplicemente che l’avrebbe dovuto capire qualunque scemo, figuriamoci gli intellettuali: in tv tutto è cultura, tranne la cultura. E invece.
“Temptation Island” così come lo conosciamo inizia nella primavera del 2014, e ci mette dieci anni a completare il percorso che i lettori di giornale sono abituati a vedere: quello in cui la redazione di Repubblica si sveglia tardi ma sentendosi comunque intelligentissima, dice è il caso di trattare questo fenomeno per subumani, ma prendiamolo alto, e fa scrivere un articolo a un editorialista percepito sofisticato.
Quando venerdì ho letto, nell’articolo di Stefano Cappellini, che a non so quale punto della trasmissione ne era successa «di ogni», e a seguire la specifica che attribuiva lo stilema lessicale a Nicole Minetti, quando l’ho letto un po’ volevo buttarmi dalla finestra; un po’ gli sono stata grata per avermi illuminato il dettaglio che Berlusconi, quanto a portare alla luce i tamarri ambiziosi, è stato ascensore sociale quanto Boncompagni o la De Filippi; un po’ ho pensato a quella mia amica che si vanta di non aver mai visto un programma della De Filippi, e che di recente mi aveva esposto la sua teoria secondo cui quelli dei reality dicono «ti sblocco un ricordo».
Mi ero messa lì e avevo provato a spiegarle – invano – che non esistono «quelli dei reality» (o «quelli dei social»); che se accendi una telecamera sul paese reale non stai inventando modi di dire o di vestire o altro: stai solo rendendo edotte quelle come noi, che il paese reale lo frequentano il meno possibile, di quel che accadrebbe anche a telecamere spente. Di gente che da ben prima che la ascoltassimo dice «ti sblocco un ricordo», «di ogni», «viverti» (sono anni che voglio implorare Stefano Bartezzaghi di spiegare diffusamente quando «vivere» sia diventato un verbo riflessivo e umanamente transitivo: su Instagram e in tv, cioè nelle mie finestre sul paese reale, sono anni che la gente vive qualcuno, vive sé stessa, vive riflessivamente esperienze e vive transitivamente persone, e io ho bisogno che uno studioso mi spieghi quand’è cominciata).
Se i lettori di Pasolini l’hanno letto così invano da pensare che il proletariato arrivista l’abbia inventato Maria De Filippi, possiamo meravigliarci se quelli che leggono i libri che escono in questo secolo s’indignano se un padre cerca di non far impiccare in cella il figlio dicendogli che tutto sommato non ha fatto niente?
Ieri una delle pensatrici che l’Instagram si può permettere scriveva che è tutto lo stesso patriarcato, il padre di Turetta che giustifica il figlio e il dj di “Temptation Island” che la fidanzata si tiene per fidanzato nonostante lui non voglia che vada in giro scollata. Ma certo, pulcina: uno spettatore di Alberto Angela non solo non potrebbe mai ritrovarsi con un figlio assassino; ma, qualora accadesse e andasse a trovarlo in galera, non gli farebbe mai una raccomandazione da ceto medio complessato quale «ora pensa a laurearti». Sono proprio due umanità distinte, certo, come no.
La ragione per cui non so come si ponesse il tizio tatuato del bar (mica l’avrete già dimenticato) rispetto alla baracconata delle Olimpiadi, se come chi la considera il sublime trionfo della queerness (qualunque cosa essa sia) o come chi la ritiene la resa dell’Occidente che irride le proprie fondamenta culturali, è che neanche il tizio saprebbe cosa dirne, come tutti di tutto.
Non ho visto neanche un secondo della cerimonia, ma ho letto in diretta vagonate di tweet annoiati che erano certi fosse la più brutta cerimonia inaugurale mai vista; e il mattino dopo, a curve delle indignazioni ufficialmente attribuite come in una cena placée, ho visto gli stessi glorificare la cerimonia davanti alla quale erano morti di noia: se indigna la curva avversaria, allora è un capolavoro.
Nel frattempo, i francesi che prima avevano rivendicato la messa in scena dell’Ultima cena, prendendosi il coraggioso ruolo di chi irride la religione più diffusa in occidente (altrimenti come la dimostriamo, la superiorità dell’occidente, rispetto ai buzzurri che ammazzano i vignettisti blasfemi), smentivano, dicevano che no, che in realtà il riferimento culturale era Dioniso, era Pollon, era Rabelais, era sarcazzo – e insomma, il povero pubblico medio le parti di chi doveva prendere, in questa tifoseria totale in cui è impensabile fottersene d’avere un’opinione sul tema del giorno?
Non lo sapevo ma lo sapevo: il tatuato del bar, non c’era bisogno di chiederglielo, avrà come tutti aderito al primo o all’ultimo parere visto sui social. A qualcuno resta in testa la prima cosa che sente, a qualcuno l’ultima, ma il meccanismo è lo stesso e segna la differenza tra il secolo dell’opinionismo gratuito e quello precedente. Compravo questo o quel giornale perché avevo deciso che a darmi la linea fosse Scalfari o Montanelli. Adesso la linea me la dà l’algoritmo, e quindi è tutto a caso.
Gli osservatori scarsi dicono che c’è la filter bubble, e quindi l’algoritmo ci propone gente che la pensa come noi, ma non è vero, e non lo è perché sulla più parte delle cose noi non la pensiamo in nessun modo, finché non ci siamo guardati intorno. Dopo, la pensiamo come chi è capitato nel nostro orizzonte.
«Hai le Nike nere che abbiamo comprato alla Nike, sennò quelle di Decathlon ma secondo me non vanno bene, fai tutta l’estate così?», ha detto a un certo punto la signora, mentre il figlio quarantenne spiegava che le scarpe da ginnastica morbide che aveva erano quelle che non davano fastidio al suo mignolo rotto. Ho avuto tantissima voglia di avvicinarmi e chiedere conto del plurale. Portava spesso il figlio quarantenne a comprare scarpe come avesse otto anni? Le lavatrici gliele faceva ancora lei? La brioche per la colazione se l’era scelta da solo? In galera l’avrebbe difeso? Il giovedì sera guardavano la stessa cosa alla tele o una sceglieva il culturale e l’altro Angela?
Poi non l’ho fatto, perché la borghesia golfista, proprio come i tronisti, va osservata a distanza, per evitare risse e per mantenere uno sguardo da studiosi e non da tifosi. Me ne sono andata da lì col dubbio che, se non abbiamo più gli strumenti per distinguere tra grandi moralisti e piccoli moralizzatori, esista una sola scappatoia al farsi dire come pensarla dall’algoritmo, e sia farselo dire da mamma e papà.