Vecchia amicaIl talento sottovalutato di Maddalena Corvaglia, la Murgia dello schieramento avverso

L’ex Velina, parlando su Instagram al pubblico dell’altra curva, ha messo in discussione le certezze di chi pensa solo le cose giuste e non si ricorda mai che esiste anche mezza Italia che la pensa diversamente

Lapresse

L’altro giorno un amico mi ha svelato di chi parlasse “Vecchi amici”, canzone di De Gregori che negli ultimi trentadue anni ho ascoltato migliaia di volte e la cui ispirazione ho sentito attribuire a decine di giornalisti, segretari di partito, cantanti, ogni volta credendoci io, ogni volta con sicumera chi mi garantiva che sì, Francesco (i mitomani chiamano sempre i famosi per nome) parlava proprio di lui. Ci ho creduto di nuovo, naturalmente. Non vi dirò chi è il tizio di cui parlerebbe, naturalmente. Tizio che all’epoca mi pareva descritto come il male assoluto, e adesso non sono mica più tanto sicura.

La settimana scorsa mi sono passate davanti, credo su Facebook, le lodi per un podcast dedicato a Michela Murgia, un podcast che non ho sentito e di cui nulla so, ma il cui titolo mi aveva assai colpita. Conteneva le parole «l’intellettuale scomoda», e se l’avessero definita «musa della destra», o «dicitrice dalla dizione impeccabile», o «reginetta delle accomodanti» mi sarebbe parso meno lunare.

Non ci vuole uno studioso specializzato in fenomenologia della popolarità per spiegare che, per quanto si possa slabbrare il senso di quel fessissimo aggettivo che è «scomodo», Murgia proprio non lo era. A meno che uno non sia così ottuso da pensare che «scomodo» sia l’intellettuale che gliele canta ai politici, cioè Forattini. Qualunque persona con neuroni in numero superiore a due sa però che il posizionamento che definisce un intellettuale non è quello rispetto a Salvini: è quello rispetto al pubblico che di quell’intellettuale comprerà i libri e il resto.

Al suo pubblico, Murgia diceva esattamente quel che il suo pubblico voleva sentirsi dire. L’unica cosa poco compiacente nei confronti di chi andava da lei a farsi confermare le proprie opinioni gliel’ho sentita dire nelle ultime settimane di vita, quando ha spiegato – a un pubblico che vuole sempre sentirsi dire che il problema sono gli altri – che non era il caso di mettersi a fare la polizia del femminismo altrui, a giudicare se le altre avevano o no il diritto di dire la loro e di comportarsi come volevano. Era una cosa ovvia, diventava dirompente detta su Instagram, il posto la cui linfa vitale è decidere ogni giorno i buoni e i cattivi.

Io Maddalena Corvaglia l’ho dovuta cercare su Google. Non nel senso della famiglia di sinistra di “Ferie d’agosto”: non sono abbastanza pura da non avere la televisione. L’ho dovuta cercare perché della Corvaglia so quel che sospetto sappiano tutti: che faceva “Striscia la notizia” trecento anni fa. Quando l’altroieri si è assicurata il posto di cattiva della settimana su Instagram, mi sono chiesta come avesse pagato l’affitto nei ventidue anni passati da quando ha finito di fare “Striscia”.

È con sollievo che ho scoperto che è apparsa in un sacco di programmi che non ho visto, e insomma non sarà la Carrà ma non devo preoccuparmi per le sue bollette. Fatto sta che lunedì la Corvaglia accende la telecamera del telefono, e decide di fare l’intellettuale scomoda.

Vale a dire, di irridere le identità percepite. Che è una cosa che puoi fare in due casi. Nel primo caso, sei saldamente collocato a destra, e conti sulla polarizzazione e sulla curva tua che comunque ti acclamerà (mentre gli altri ti daranno comunque del fascista): se sei Francesco Giubilei, puoi dirle tutte. Che il matrimonio può essere solo quello tra uomo e donna, che le canne uccidono, che le donne non hanno il cazzo. Non importa quali di queste affermazioni abbiano senso e quali no: importa che sono, presso la scuola di pensiero dei socialmente accettabili, parimenti impresentabili. Le dici se ti sei creato un consenso dall’altra parte.

Nel secondo caso, sei intellettualmente abbastanza attrezzata da essere in grado di sostenere un dibattito con chi asserisce senza mettersi a ridere che Ugo con la barba vada chiamato Adalgisa perché ha lo smalto alle unghie. Lo so cosa state pensando: che è un dibattito facile. Mica ci vuole Camille Paglia per sostenerlo.

Sottovalutate l’aspetto dogmatico delle guerre culturali in questo secolo che, avendo smesso di credere negli dèi, crede nell’identità di genere. Certo che l’ostia è acqua e farina, mica la carne a brandelli di Cristo, ma andresti a discuterne col sinodo dei vescovi? Ti alzeresti durante la messa per chiedere al prete cosa diamine stia dicendo? E allora perché vai su Instagram a mettere in discussione le loro certezze?

Maddalena Corvaglia ci è andata e, confesso, mi ha fatto molto ridere. Su, dovete riconoscerlo, anche se servite all’altare del percepitismo: «Se un uomo si identifica in una coccinella, e ha il diritto di essere trattato da coccinella, può venire a vivere nel tuo giardino?» è un guizzo strepitoso, è l’inizio di un monologo di Gervais, è un’immagine che in mano ad autori capaci potrebbe fruttare assai.

Ho passato ventiquattr’ore a osservare gente che sbeffeggiava il video della Corvaglia dopo averlo visto per la prima volta sull’Instagram del direttore di Vanity Fair, che naturalmente non rideva ma seriamente lo stigmatizzava, essendo Vanity Fair uno degli altari di quella neoreligione. (Nel documentario sul giornale, il direttore spiegava quanto era stata importante l’influenza della Murgia per capire quanto potessero ferire parole come «prova costume», e io lo so che diventiamo solo cibo per vermi, ma vorrei davvero ci fosse un aldilà perché una come la Murgia potesse ridere fortissimo di quali e quante puttanate è riuscita a far prendere sul serio alle classi teoricamente pensanti di questo derelitto secolo).

Ho passato ventiquattr’ore a dire a tutti ma vi pare sensato prendersela con Maddalena Corvaglia, dai, poverina, sola contro tutti, minoranza oppressa, bisogna essere inclusivi con le bionde dialetticamente non troppo dotate, che buoni siete mai se poi vi accanite su un’oratrice svantaggiata.

Ho pensato che la Corvaglia fosse indifesa contro un’internet per rispondere alla cui ferocia non aveva gli strumenti, era scomoda sì ma non intellettuale, era destinata a soccombere. Poi sono andata sul suo Instagram e ho visto le storie di ieri, storie in cui invitava il pubblico a non lasciare che gli avvoltoi si arricchissero seminando odio.

«In passato ci hanno divisi per regione», ha detto Maddalena riferendosi alla pandemia, e io ho capito che non era una solitaria controcorrentista, una renudista che diceva alle coccinelle ciò che le coccinelle non vogliono sentirsi dire, cioè che il loro credersi coccinelle non le rende tali. Maddalena, proprio come Michela Murgia, parlava al suo pubblico. Che non era quello dei socialmente presentabili che pensano le cose giuste e credono nell’infallibilità dei vaccini e nell’esistenza del patriarcato, quello che io erroneamente scambio per l’unico pubblico pagante di prodotti culturali, ma che invece è meno della metà (le vendite di Vannacci non mi hanno insegnato niente).

Parlava a quell’altro segmento di pubblico. Quello al quale Giorgia Meloni dice (su Chi) «Noi crediamo che il merito venga prima di tutto, loro pensano che le etichette vengano prima di tutto». Quello al quale Joe Rogan dice (nel suo nuovo spettacolo su Netflix) «Sarà mica colpa mia, se sui vaccini vi fidate più di me che delle informazioni ufficiali». Quello che va sotto ogni tweet che parli di qualsivoglia forma di discriminazione a scrivere: e allora quando non ci facevate andare al ristorante senza greenpass?

Quando la Corvaglia è arrivata al punto in cui dice che noi siamo la generazione che non si è mai chiesta se i Cugini di campagna fossero trans, ho pensato che c’è del genio, e io non l’avevo capito. L’avevo sottovalutata perché sono un’orrenda comunista che ha un pregiudizio intellettuale verso chi ha fatto la Velina, e non so apprezzare il saper stare da altre parti.

Mi ero sbagliata perché sono talmente abituata a giornali, libri, televisione a misura di socialmente presentabili che ho gli stessi limiti di De Gregori in quella canzone in cui insolentiva il vecchio amico. Vecchio amico che, con trentadue anni di ritardo, mi viene il sospetto avesse ragione: «Tu stai da tutte le parti, io sempre da una parte sola».

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