A Shoreditch, un quartiere a est di Londra, il 26 settembre 2015 circa duecento persone si incontrarono fuori al Cereal Killer Cafè per protestare contro l’apertura del locale. Munite di bombolette spray e fumogeni alcuni vandalizzarono il negozio, lanciando contro la vetrina oggetti di vario tipo, urlando e forzando le porte per cercare di entrare, tanto da costringere i proprietari del locale a chiudersi dentro.
Tra i partecipanti alla manifestazione erano presenti «un mix di londinesi della classe operaia, da bambini a pensionati, alcuni residenti di alloggi sociali locali, mentre altri arrivavano dalle zone meno costose della capitale; molti sono stati vittime della gentrificazione e degli sfratti – ha scritto il giornalista Will Harvey sul Guardian –. Anarchici, attivisti, squatter e inquilini di case popolari di Class War sono stati raggiunti lungo la strada da giovani locali e dai soliti festaioli di Shoreditch arrabbiati per l’aumento dei prezzi». Il negozio fu coperto da enormi critiche già dalla sua apertura: un servizio realizzato da Channel 4 News intervistò le persone che abitavano nella zona, chiedendo loro se si potessero permettere di pagare una tazza di cereali cinque euro, e i fondatori, i fratelli Keery, si ritrovarono a difendere i prezzi proposti nel loro locale. Il Cereal Killer Cafè non era solo l’apertura di un negozio dai prezzi alti, ma per gli abitanti del quartiere era il simbolo del presagio di un cambiamento più grande, che avrebbe interessato l’intera area. «Abbiamo trovato dei fogli nella buca delle lettere, sopra c’era scritto “morite, hipster”, e cose del genere», ha raccontato al Guardian Gary Keery, co-fondatore del negozio.
La hipster economy è considerata l’insieme di estetiche e consumi tipici di una classe di persone che ricerca prodotti che fuoriescono dal mainstream, i cui gusti si discostano dai trend popolari. La sua ascesa è legata a una cultura aziendale e al mondo del marketing. «Visibili manifestazioni di queste tendenze orientate all’affermazione della propria individualità, contro la cultura mainstream massificata», scrive il ricercatore Alessandro Gerosa nel libro “The Hipster Economy”. Questioni di estetica, status sociale, preferenze e convinzioni convergevano nel forgiare un’identità unica, in una dichiarazione culturale e politica al mondo esterno, che oggi è promossa anche attraverso i social media. Nelle città vincono i luoghi instagrammabili e la rappresentazione online degli spazi urbani da parte degli utenti sta riscrivendo degli itinerari delle persone che attraversano le città, cambiandone il senso.
In una ricerca condotta nel 2017, John Boy e Justus Uitermark – rispettivamente professore associato di sociologia e professore di geografia urbana presso la Leiden University di Amsterdam – hanno analizzato il modo in cui le tecnologie digitali agiscono nello spazio urbano, studiando come gli utenti navighino il loro spazio sociale attraverso le piattaforme, prendendo in analisi il caso di Amsterdam. Nella ricerca si parla di “processo ricorsivo” anche da un punto di vista puramente mediatico. Gli utenti di Instagram, infatti, riassemblano la città usando gli spazi del centro urbano come palcoscenico o come oggetto di scena dei propri post, in un processo di produzione di contenuto continua: ogni aspetto dello spazio urbano può potenzialmente diventare contenuto. «I posti sono attrattivi quindi le persone vogliono andare lì, e poi i luoghi diventano attrattivi perché le persone vanno lì. Gli spazi diventano hotspot, da cui le persone sono attratti – racconta a Linkiesta John Boy –. Ha molto a che vedere con l’interpretazione, questi posti diventano luoghi dove esibire uno status. Mostrando che tu sei lì o che stai facendo qualcosa lì stai promuovendo la tua immagine, ma questo contribuisce anche ad aumentare la reputazione di un luogo».
Nella loro ricerca, Boy e Uitermark hanno analizzato circa un milione di post Instagram geotaggati ad Amsterdam, pubblicati tra il 19 aprile e il 12 luglio 2015, e hanno intervistato sedici utenti della piattaforma per delineare delle categorie di persone che si muovono nella città, e che fruiscono dei suoi servizi in modi diversi. Per farlo hanno utilizzato il Page Rank Algorithm, che consente di mappare la distribuzione dell’identità centrale degli utenti, e l’Infomap community detection algorithm, per studiare le comunità online createsi in base alle interazioni. Dai risultati della ricerca è emerso che l’interazione tra gli utenti riproduce un modello di stratificazione sociale. «Nonostante i social media siano spesso descritti come network orizzontali, le ricerche dimostrano che spesso sono spazi largamente diseguali, con pochi utenti che ricevono il massimo dell’attenzione mediatica». Gli spazi digitali sono anche segmentati: i social media permettono agli utenti di collegarsi con persone che la pensano allo stesso modo, creando quelle che vengono comunemente chiamate “bolle”.
«Una caratteristica di queste piattaforme dove ci sono follower e interazioni tra utenti è che molto spesso si sviluppa ciò che in sociologia viene definita “omofilia”, il formare dei legami con persone affini a te – commenta John Boy –. Cercherai persone simili a te in termini di attività e consumi, ed è per questo che possiamo stilare una lista di gruppi di persone con stili di vita simili». I ricercatori hanno suddiviso gli utenti che fruiscono la città di Amsterdam in otto sottogruppi, in base ai luoghi che hanno geotaggato più frequentemente: tra questi gruppi ci sono i neo-bohemians, i city-image makers, i locally-oriented gentrifiers e i vanguard partying of cultural producers. «Questo raggruppamento (di persone, ndr) ha un impatto sullo spazio urbano – continua il ricercatore –. Ci sono persone che vanno agli stessi concerti o frequentano lo stesso tipo di palestra. Lo puoi vedere dai post che sono stati pubblicati lì. La tendenza di Instagram è di integrare le persone in un universo simbolico coeso, che si contrappone alla frammentazione della vita offline».
La produzione di contenuto su Instagram è vista come un costante lavoro di personal branding, soprattutto per le persone che svolgono lavori creativi. Boy e Uitemark li definiscono full-time city marketers, «professioni che preparano le persone a essere imprenditori simbolici di successo». Questi gruppi di utenti, infatti, sono caratterizzati da una vita sociale che documentata sui social diventa un’estensione della loro vita lavorativa, e viceversa. «Non abbiamo davvero degli orari lavorativi», dice Anne, intervistata di ricercatori. «Noi non lavoriamo, e non abbiamo una vita privata», aggiunge Suzan.
Oltre agli hotspot e gli itinerari urbani, i social stanno rimodellando le città anche dal punto di vista estetico. John Boy racconta di un piccolo fruttivendolo in un quartiere di Amsterdam, già presente nella zona dal 1980, che nel corso degli anni ha riadattato gli interni del negozio per adattarsi all’estetica degli altri esercizi commerciali presenti nella stessa area. «Alcune aziende di marketing che operavano lì mi hanno raccontato di averlo aiutato a rendere il locale un po’ più carino – dice il ricercatore –. La motivazione che li ha spinti a farlo è stata che ci sono persone che spendevano i loro soldi lì».
Negli ultimi decenni è diventato sempre più facile visitare diverse città senza avere l’impressione di essersi veramente spostati da casa: le metropoli negli ultimi anni si assomigliano sempre di più da un punto di vista urbanistico. La standardizzazione della composizione delle città riguarda anche le aperture dei nuovi esercizi commerciali: dalle grandi catene di Starbucks a locali esteticamente piacevoli o instagrammabili. Queste nuove aperture sono caratterizzate non solo dalla loro fotogenicità, ma anche dalla geografia digitale che si sviluppa ampiamente sui social network, e che collega questi esercizi commerciali.
«La mia teoria era che tutti gli spazi digitali interconnessi da applicazioni avessero un modo per somigliare agli altri», scrive sul Guardian la giornalista Kyle Chaya nell’articolo “The tyranny of the algorithm: why every coffee shop looks the same”. «Nel caso dei cafè, la crescita di Instagram ha dato ai loro proprietari e ai baristi un modo per seguirsi in tempo reale e gradualmente, attraverso i consigli dell’algoritmo, iniziare a consumare lo stesso tipo di contenuto. Dalla parte del cliente, le piattaforme hanno portato persone come me – che seguivano anche le popolari estetiche dei caffè su Instagram – verso cafè che si conformavano a quello che volevano vedere, mettendoli all’inizio delle ricerche o evidenziandoli su una mappa. […] Quando un bar era visivamente abbastanza gradevole, i clienti si sentivano incoraggiati a pubblicarlo sul proprio profilo Instagram per vantarsi dello stile di vita, che forniva pubblicità gratuita sui social media e attirava nuovi clienti».
«I social media sono gli intermediatori culturali della nostra società, e non sono luoghi neutri. Per un locale o per un bar uno dei problemi principali è farsi trovare, far sapere ai clienti della tua esistenza al di là di chi vive nel quartiere. Il digitale e i social media, oggi, sono il primo luogo dove i consumatori incontrano un locale – afferma Alessandro Gerosa –. La rappresentazione che un locale costruisce di sé sui social è centrale, e sappiamo che ci sono regole scritte o non scritte del gioco che bisogna seguire per avere visibilità. Ci sono delle estetiche a cui è bene aderire per essere riconosciuti dagli altri: esprimere un’identità unica e ben riconoscibile. Allo stesso tempo, però, è necessario conformarsi alle regole del gioco: bisogna essere diversi, ma tutti allo stesso modo».
Con i social è quasi scomparso l’aspetto randomico dell’esperienza del vivere la città, e si prediligono invece itinerari già pensati, prevedibili, e percorsi tracciati da altre persone. Parlando con Linkiesta, Boy racconta del nipote sedicenne che aveva in programma di andare a trovarlo ad Amsterdam insieme a un amico. «Ci sentivamo responsabili del portarlo in giro, ma lui ci ha detto di avere già dei piani per la giornata: ogni singolo posto che aveva programmato di visitare era uno di quei luoghi su TikTok dove devi stare in coda per un’ora e mezza per mangiare un hamburger. Invece, ogni tanto bisognerebbe solo uscire a fare una passeggiata e perdersi nella città . Scoprire le cose alla vecchia maniera, camminando tra i quartieri e quando si ha fame decidere dove andare a mangiare. Non cercare sempre il posto più bello su Tripadvisor, ma lasciare spazio per un certo senso di serendipità».
Studiare le traiettorie delle persone all’interno della città può essere anche un indicatore importante per chi le governa, che sempre più spesso si trova a dover gestire problemi legati al turismo. «Insieme al mio co-autore abbiamo incontrato i policymaker della città, che si sono congratulati con noi dicendoci che il nostro lavoro era stato utile – racconta John Boy –. Dopo aver letto la ricerca hanno deciso di rimuovere il monumento “I amsterdam” dalla piazza della città, che era diventato un hotspot per le persone che andavano a scattare foto lì. Lo hanno fatto per diffondere meglio le masse di turisti, così che i residenti non fossero disturbati da loro».