In un 2049 apocalittico, la Terra è devastata da una crisi ambientale, l’aria è irrespirabile e tutti i pochi rimasti fuggono in alcuni rifugi nel sottosuolo. Solo lo scienziato Augustine Lofthouse (George Clooney) decide di rimanere in superficie nella sua base al Polo Nord. È malato terminale e, soprattutto, deve comunicare alla navicella spaziale Aether, di ritorno dalla colonizzazione di K-23 (un satellite di Giove individuato come abitabile proprio da lui) di fermarsi.
Non sarà facile: né per lui, che dovrà cambiare postazione nel mezzo di una tempesta artica insieme a una misteriosa ragazzina che si era nascosta nella base, né per gli astronauti in orbita, tra cui Felicity Jones, che dovranno affrontare sciami di meteoriti e altri problemi.
È tutta qui la trama di “The Midnight Sky”, film tratto da “Good Morning, Midnight”, di Lily Brooks-Dalton e diretto dallo stesso George Clooney tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 in cui l’attore e regista americano saccheggia più o meno tutta la produzione di fantascienza degli ultimi anni.
Ci sono le scene sospese di “Gravity”, le traversate nel vuoto di “The Martian”, l’impianto di “Interstellar”. E non è un caso che l’anno sia lo stesso di “Blade Runner 2049” (altro omaggio). Eclettismo che traduce un’ansia profonda: dire tante cose in poco tempo (si fa per dire: dura quasi due ore) senza però arrivare a una sintesi.
“The Midnight Sky” è un film ambientalista, ma non si dice mai quale sia il cataclisma che ha reso la Terra inabitabile. È anche un film di fantascienza e viaggi nello spazio, che però viene ridotta alla solita passeggiata in esterna, per riparare i danni provocati dai meteoriti e a una diffusa nostalgia per le famiglie a casa.
Le difficoltà che incontrano i protagonisti sembrano pretestuose, fanno perdere tempo e non aggiungono informazioni. Soprattutto, non aiutano a reggere la tensione: l’esito sembra scontato, a parte un disonesto colpo di scena finale (anche questo già visto altrove) che non aiuta a riscattare il film nel suo complesso.
Ci sono però anche cose che funzionano. George Clooney, prima di tutto, più come attore (stavolta barbuto) che come regista. La stessa Felicity Jones, la cui gravidanza è autentica. La scelta delle musiche – e qui il merito è tutto del compositore francese Alexandre Desplat – insieme ad alcune scene ad effetto, dove è notevole vedere gocce di sangue disperdersi in assenza di gravità.
La sensazione, nonostante una certa poesia nel finale, è che la fatica sia proprio alla base del progetto, se non proprio del momento storico attuale: è difficile, se non impossibile, pensare a un film di viaggi nello spazio che non siano collegati alla crisi ambientale. Sono concepibili, ormai, solo come fuga.
Al tempo stesso, è difficile immaginare un pianeta nel futuro che non sia devastato, anche se il cambiamento climatico avviene in modo graduale ed è, proprio per questo, più difficile da combattere. Clooney non può sottrarsi a queste due visioni, le sposa e cerca di renderle meglio che può.
Alla fine l’amalgama riesce fino a un certo punto. E il messaggio di speranza (tenue) di un nuovo mondo da raggiungere sarà zavorrato da chi, per varie ragioni, sceglie di rimanere a Terra. Anzi, sotto.