Contro i teppisti trumpiani«Mandate l’esercito» e chiedete scusa all’ex capo degli editoriali del NYT

Un anno fa James Bennet fu costretto a dimettersi dal New York Times per aver ospitato l’articolo di un senatore che invocava l’uso della forza contro i manifestanti del Black Lives Matter che avevano incendiato le città. Gli stessi che allora pretesero la gogna per chi aveva osato pubblicare l’articolo ora chiedono di annichilire i manifestanti favorevoli al presidente impresentabile

LaPresse

Ma certo che – se degli invasati entrano non invitati in un edificio governativo onde farsi fotografare mentre, soddisfatti come dodicenni che violano l’ufficio della preside, mettono i piedi sulle scrivanie istituzionali – si tratta d’un tentativo di colpo di Stato; forse, però, una dittatura accompagnata dagli sberleffi della propria cittadinanza e del mondo e il cui colpo di Stato viene sbeffeggiato in diretta sui social network non è destinata a durare.

Ma certo che a dar corda agli insoddisfatti, ai teppisti, a quelli la cui idea di fare politica è fare casino, poi va a finire male, e Trump è, oltre a molte altre cose, pure un incosciente; forse, però, lo stesso principio vale anche se ti chiami Luigi Di Maio e vai a incontrare i gilè gialli, o se ti chiami Alexandria Ocasio-Cortez e dici che le uniche proteste sensate sono quelle che mettono in difficoltà il resto della popolazione.

Ma certo che la polizia è stata troppo morbida con gente con le corna da vichingo che voleva invadere il palazzo parlamentare di Washington, certo che non hanno sparato a vista, certo che avrebbero potuto annientarli con la forza dell’esercito più potente del mondo; forse, però, se invochi un esercito ad annichilire i manifestanti quando essi sono bianchi e di destra, poi sembri matto se te ne lamenti quando essi sono neri e di sinistra.

Ma certo che è la più grande democrazia del mondo; forse, però, considerato che le sue elezioni non si svolgono portando le urne in carrozza da una costa all’altra, magari questo dettagliuccio delle tempistiche da far west per cui si vota e poi si aspettano due mesi e mezzo perché s’insedi chi è stato eletto potrebbero riformarlo (lo so, lo so, sta in quella intoccabile e bellissima e antica costituzione che prevede anche il diritto al fucile sotto al cuscino, anch’esso indispensabile quando a cavallo domavi la frontiera).

Ma certo che i social sono uno strumento di propaganda, e un aspirante dittatore non deve poterli usare per fomentare colpi di Stato; forse, però, se uno è tuttora presidente in carica e ha accesso ai codici per lanciare i missili nucleari, bisogna essere ben imbecilli per concentrarsi sul progresso democratico rappresentato dall’avergli Twitter cancellato i cinguettii.

Scusate se mi concentro sul dito, ma – poiché della luna già si occupano tutti – mi dedicherò alle reazioni alla seconda guerra civile andata in onda per qualche ora l’altra sera in diretta da Washington. Lo farò parlando d’un fatto di sette mesi fa, che tutti abbiamo dimenticato visto che nel frattempo ci sono stati circa quindici rivolgimenti epocali al giorno.

Sette mesi fa a capo delle pagine degli editoriali del New York Times c’era un tizio che si chiamava James Bennet, e che dovette precipitosamente dimettersi in seguito alle polemiche per un suo gesto sconsiderato. Il gesto sconsiderato era la pubblicazione d’un editoriale che esponeva un pensiero diverso da quello del ceto medio riflessivo (il ceto medio riflessivo di questo secolo si caratterizza per il considerare un affronto qualunque punto di vista diverso dal proprio, e per il cercare negli editoriali conferme di ciò che già pensa).

Si era allora in piene proteste Black Lives Matter, quelle di cui ieri abbiamo rivisto molte foto, usate per sottolineare come la polizia fosse stata più aggressiva coi manifestanti neri di quanto lo sia stata coi manifestanti bianchi. (Come tutti i fenomeni sociali, le proteste sono mode, epperciò cicliche: negli ultimi mesi Black Lives Matter non ha più manifestato, e non perché ci sia stato alcun cambiamento strutturale nella società americana, tranne che nel pretendere partecipazioni nere per candidare i film agli Oscar: chi s’accontenta gode così così).

Dunque Bennet decise di pubblicare questo editoriale scritto da un senatore repubblicano (epperciò massimamente impresentabile per i giornalisti del New York Times e per buona parte del pubblico di quel giornale), Tom Cotton.

Tom Cotton è la persona cui ho più pensato mercoledì sera, e l’unico che avrei voluto intervistare se fossi stata un giornalista americano.

Tom Cotton fu la pietra dello scandalo.

Tom Cotton fu colui che innescò la polemica che costrinse Bennet alle dimissioni, e lo fece scrivendo un editoriale del quale basta sapere il titolo: Mandate l’esercito. (Catenaccio: La nazione deve ripristinare l’ordine. I militari stiano pronti).

L’editoriale si trova ancora sul sito del New York Times, preceduto da un pistolotto di scuse in cui spiegano che i toni sono sbagliati e non avrebbero dovuto pubblicarlo e si pentono e si dolgono (un po’ come la Hbo quando trasmette Via col vento).

Il pistolotto è lì nonostante gli ultimi due giorni trascorsi – dai lettori del New York Times, dai giornalisti del New York Times, dall’elettorato del New York Times – a dire che non si capisce come mai mercoledì sera l’esercito non abbia annientato gli invasori di Capitol Hill, come mai non abbia sparato a vista, come mai l’America dell’ordine e della legge sia diventata un paese di mollaccioni.

Due giorni che vengono dopo sei mesi trascorsi – sempre da quei giornalisti, da quei lettori, da quell’elettorato – a dire che bisognava togliere i finanziamenti alla polizia, perché mica abbiamo bisogno che qualcuno difenda i cittadini e le istituzioni (confidiamo nella natura fondamentalmente buona dei selvaggi: fidandosi di Rousseau non è mai andata male, no?). Togliamole i finanziamenti i giorni dispari e poi pretendiamo che difenda l’ordine costituito nei giorni pari, altrimenti l’opinione pubblica si annoia.

Ieri Keith McNally, ristoratore newyorkese, ha riportato su Instagram le parole della Ocasio-Cortez che ho citato all’inizio. Nei commenti c’era gente che gli diceva che allora era trumpiano, allora non darò mai più i miei soldi ai tuoi ristoranti, allora sei un impresentabile. Il tapino ha tentato di spiegare che veramente stava solo invocando coerenza – se condanni la violenza, devi condannarla da qualunque parte venga – ma il concetto è ormai irricevibile dagli intellettuali, figuriamoci da quelli che seguono i social d’un ristoratore.

Ma certo che non bisogna fare irruzione nei luoghi istituzionali, e che bisogna rispettare i risultati delle elezioni, e che il mondo è pieno di cose brutte e cattive che è bene cercare di arginare e sconfiggere; forse, però, superate le scuole medie, bisognerebbe imparare a valutare le parole e le azioni in base a ciò che sono, e non a chi le pronuncia e le compie.