«Un’Europa che fa meno, ma che lo fa meglio». Così la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha sintetizzato la sua visione dell’Unione europea nell’ultima visita al Parlamento comunitario, a Strasburgo, lo scorso 6 luglio. Il suo partito auspica un’«Europa confederale», cioè un’alleanza tra Stati sovrani, che può fare raccomandazioni non vincolanti ai suoi membri, né direttamente applicabili ai cittadini.
Al momento l’Unione somma elementi federali e confederali, in una costruzione politica sui generis, a metà fra i due modelli. Come spiega il politologo Roberto Castaldi, «è più simile a una federazione che a una confederazione», visto che il Parlamento è eletto direttamente dai cittadini, le sentenze della Corte di Giustizia vanno adottate in tutta l’Unione ed esiste una sorta di esecutivo centrale, la Commissione europea. Al tempo stesso, però, non ha regole fiscali armonizzate né un esercito o una politica estera comune, pilastro fondamentale di ogni federazione di Stati.
Chi sostiene il sistema confederale vuole in sostanza un’Unione con meno poteri nei confronti dei singoli governi nazionali: «Bruxelles non fa quello di cui può occuparsi meglio Roma», per usare proprio le parole di Meloni.
Al di là della visione generale, il programma elettorale di Fratelli d’Italia contiene alcuni punti concreti che il partito si impegna a sostenere a livello comunitario: sono elencati nel secondo paragrafo, intitolato «Prima l’Italia e prima gli italiani», che comincia con un’eloquente «difesa della nostra sovranità nazionale».
Cambiare i trattati: missione (quasi) impossibile
Subito dopo si afferma la volontà di «ridiscutere tutti i trattati Ue, a partire dal fiscal compact e dall’Euro». Si contestano quindi quelle regole europee che impongono ad esempio il pareggio di bilancio o l’obbligo di mantenere il rapporto tra deficit nazionale e prodotto interno lordo sotto il 3%.
Fiscal compact e «patto di bilancio europeo» sono infatti modi informali di chiamare il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, concordato nel 2012 da 25 Paesi Ue, tra cui l’Italia. Ridiscuterlo, come propone Fratelli d’Italia, richiede l’assenso di tutti i firmatari.
«Per modificare i trattati bisogna attivare la procedura dell’articolo 48 del Trattato sull’Unione europea, che prevede la votazione all’unanimità», ricorda a Linkiesta Nicoletta Pirozzi, direttrice del programma dedicato all’Ue dell’Istituto Affari Internazionali.
Allo stesso modo l’adozione dell’Euro come moneta unica per 19 Paesi dell’Unione (20 con la Croazia, dal 2023) è avvenuta nel 1999, ma su basi concordate nel 1992 con il Trattato di Maastricht, che ha anche istituito la Banca centrale europea.
Ci sarebbero gli opt-out, le deroghe che alcuni Paesi hanno su determinati trattati: l’Irlanda, ad esempio, si è chiamata fuori da quello di Schengen, che regola la libera circolazione nell’Unione. Ma anche queste eccezioni vanno negoziate con gli altri Paesi, non possono essere decise unilateralmente, e soprattutto riguardano gli accordi futuri. Chiedere un opt-out su un trattato già in vigore significa, infatti, rinegoziare il trattato stesso.
Per ogni modifica servono «strategie efficaci e alleanze con altri Paesi, oltre che il sostegno delle opinioni pubbliche», spiega Pirozzi. Alla fine del 2021 Mario Draghi ed Emmanuel Macron, due capi di governo di spicco, universalmente riconosciuti come esponenti europeisti, avevano espresso la necessità di riformare le le regole di bilancio, «eccessivamente complesse» dell’Unione.
Ma il cammino è lungo, tortuoso e soprattutto senza alcuna garanzia di successo: basti pensare che al momento gli Stati europei non intendono nemmeno convocare una convenzione che possa anche solo discutere la riforma dei trattati.
Una strada impossibile da percorrere, invece, è quella abbozzata nel 2018, quando è stata depositata una proposta di riforma costituzionale per una Italexit che nei fatti prevedeva un semplice tratto di penna sui tre articoli della Costituzione che contengono riferimenti all’Unione europea. Se il centrodestra vincesse con ampia maggioranza, potrebbe metterla in cantiere e approntare le modifiche agli articoli 97, 117 e 119.
Solo che Roma resterebbe in ogni caso legata a Bruxelles dalle firme sui trattati comunitari, che garantiscono alle norme europee un valore giuridico superiore rispetto a quelle nazionali. L’unico modo per svincolarsi realmente dall’Unione sarebbe quello di invocare l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, quello a cui ha fatto ricorso il Regno Unito nel 2017. Ma questa ipotesi oggi non sembra rientrare affatto nei piani di Fratelli d’Italia.
Più comprensibili a livello procedurale sono i propositi di «salvaguardare l’interesse nazionale in politica estera» e «difendere il lavoro, l’industria e l’agricoltura italiani da direttive Ue penalizzanti». Che possono tradursi in una maggiore rigidità nelle discussioni con gli altri Stati (negli affari esteri ogni Paese dispone del dirittto di veto) e in dure battaglie contro singole normative, come ad esempio quella sull’etichetta alimentare, comunque già ingaggiata dal governo in carica.
La clausola enigmatica
Un altro punto del programma del partito prevede l’inserimento di una «clausola di supremazia in Costituzione per bloccare accordi e direttive nocivi per l’Italia». Ne vengono indicati due in particolare: la cosiddetta «direttiva Bolkestein» (2006/123), che facilita lo spostamento dei lavoratori tra i Paesi dell’Unione, e il regolamento di Dublino, che riguarda la politica migratoria dell’Unione e sancisce il principio per cui un richiedente asilo è obbligato a presentare la sua domanda nel Paese europeo dove è entrato per la prima volta.
Si tratta di norme discusse e contestate, che si può certo provare a modificare a livello comunitario. L’ultimo tentativo di revisione è il Pact on Migration, presentato dalla Commissione europea nel 2020 per superare il regolamento di Dublino, e al momento arenato nei negoziati degli Stati membri.
Ciò che appare irrealizzabile è invece una «clausola di supremazia» che consenta di non rispettarle fintanto che sono in vigore. «Direttive e regolamenti sono atti giuridici dell’Unione. Non applicarli significa esporre il Paese a una procedura di infrazione ed eventualmente un deferimento alla Corte di Giustizia dell’Ue con possibili sanzioni pecuniarie», afferma Nicoletta Pirozzi. «Nell’Unione vige il principio del primato del diritto europeo sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Parlare di una “clausola di supremazia” in Costituzione mi sembra in netto contrasto con questo principio».
A livello giuridico, tra l’altro, è stata già elaborata dalla Corte costituzionale italiana una teoria detta «dei controlimiti» secondo la quale non si applicano norme europee che siano in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana. Spingersi oltre significherebbe presumibilmente non riconoscere più la supremazia del diritto europeo su quello nazionale, forse in linea con quanto sancito dal Tribunale costituzionale della Polonia, che non a caso è guidata dal migliore alleato europeo di Fratelli d’Italia, il partito conservatore Diritto e giustizia (PiS).
Inoltre, questo ipotetico scenario avrebbe conseguenze dirompenti: se un Paese non riconosce la supremazia del diritto europeo, non può più rientrare nella cooperazione giudiziaria e viene dunque escluso dall’integrazione comunitaria per tutto ciò che riguarda il piano «legale». Cosa che non equivale di per sé ad abbandonare l’Unione europea, ma è un buon modo per incamminarsi verso la porta d’uscita.
Nel programma di Fratelli d’Italia, ad ogni modo, l’ipotesi di un’«Italexit» non è contemplata, così come quella di rinnegare la moneta unica. Mentre in passato si definiva l’Euro «una moneta sbagliata» e si chiedeva lo «scioglimento concordato dell’Eurozona», ora i toni sembrano più morbidi, o quantomeno più vaghi. Difendere l’Italia, insomma, ma senza attaccare troppo l’Europa.