Trecento milioni di dollari per sei episodi, una media di 1,25 milioni di dollari per ogni minuto di girato. Secondo l’Hollywood Reporter è quanto sarebbe costato Citadel, l’ultima onerosa serie tv prodotta da Amazon Prime Video e uscita lo scorso aprile. Meno de “Gli Anelli del Potere” (2022), il colossal ambientato nel mondo di Tolkien per il quale sono stati spesi oltre settecento milioni di dollari, tra diritti e realizzazione effettiva. Numeri che ormai non impressionano più, nell’El Dorado delle produzioni multimilionarie del mercato streaming.
D’altronde, solo l’anno scorso proprio Amazon ha speso circa sette miliardi per la creazione di contenuti originali e per accordi su eventi sportivi live destinati alla sua piattaforma video. Sul versante streaming, solo Netflix e Disney+ hanno registrato un esborso maggiore.
Una differenza, tuttavia, c’è: diversamente da Amazon, gli show delle due piattaforme rivali hanno dominato costantemente le classifiche Nielsen relative al pubblico degli Stati Uniti: nel 2022 Netflix ha occupato tredici posti su quindici nella classifica dei contenuti originali più visti, mentre un terzo della top ten relativa solo ai film era composta da prodotti Disney+.
Quest’anno la compagnia fondata da Jeff Bezos investirà dodici miliardi di dollari in contenuti streaming, una cifra seconda solo a Netflix. Eppure, nonostante le spese ingenti, la sua offerta sembra fare meno breccia nel pubblico rispetto alla concorrenza. Stesso discorso per la critica: le quarantacinque nomination ottenute ai prossimi Emmy Awards – un record per Amazon – restano meno della metà di quelle di Netflix o di quelle di Max, il servizio streaming di Warner Bros-Discovery (non ancora arrivato in Italia).
Parlando con l’Economist, un ex dirigente dell’azienda ha ammesso che «il tasso di successo di Amazon non è buono, né coerente con la sua spesa». Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare molto presto, ma non grazie a film o serie tv di qualità. Come spiega lo stesso settimanale britannico, a Seattle potrebbero avere in serbo una strategia per trasformare Amazon Prime Video in un modello di business davvero vincente: renderlo una macchina pubblicitaria performante.
In principio fu la televisione a basare la sua economia sui celebri “consigli per gli acquisti”. Poi, meno di una decina di anni fa, sono arrivati i servizi di streaming su abbonamento. Ora potrebbe verificarsi una sorta di ritorno alle origini.
Secondo la società di ricerca Insider Intelligence, quest’anno le entrate pubblicitarie di Amazon nel suo complesso ammonteranno a quarantacinque miliardi di dollari, pari a circa il 7,5 per cento del totale mondiale in ambito digitale. In poco più di un decennio la compagnia ha dato vita a un’attività di annunci online che ha insediato il precedente duopolio, quello di Google e Meta.
Finora Prime Video è rimasto privo di interruzioni per preservare un’atmosfera “premium”, ma l’introduzione di spot da parte di Netflix e Disney+ l’anno scorso (con abbonamenti a prezzo ridotto) ha cambiato le carte in tavola. Amazon sta già sperimentando la pubblicità durante gli show sportivi e sta spostando una parte sempre maggiore del catalogo su Freevee, la sua controparte ad-supported. È probabile, quindi, che assisteremo presto a questo genere di interruzioni anche su Prime.
La banca Morgan Stanley prevede che entro il 2025 la nascente attività dell’amazzone nel settore del video advertising varrà oltre cinque miliardi di dollari l’anno solo negli Stati Uniti e che, sul lungo periodo, la sua superiore conoscenza degli spettatori potrebbe consentirle di applicare tariffe più elevate per gli annunci rispetto a qualsiasi altro player del mercato.
Attualmente, gli spot via streaming rappresentano circa un terzo della spesa pubblicitaria televisiva totale negli Stati Uniti, un numero in costante aumento. In Europa, Internet e tv costituiscono insieme il sessantanove per cento del totale, con importanti differenze a livello nazionale: la tv tradizionale è per distacco il mezzo con la maggiore spesa pubblicitaria in Italia (settantatré per cento), mentre il Regno Unito domina incontrastato sul fronte online (trentasette per cento del budget contro il misero otto per cento del nostro Paese).
Nel 2022, l’industria pubblicitaria italiana ha destinato “solo” trecentosessantuno milioni di euro alle tv connesse, pur registrando un incremento del cinquantacinque per cento rispetto all’anno precedente.
Il radioso futuro di questo mercato, a ogni modo, sembra segnato per almeno altre due ragioni. Gli annunci televisivi sono da sempre ritenuti tra i più efficaci, il problema è il loro impatto difficile da misurare: man mano che gli inserzionisti acquisiranno la capacità di vedere come i clienti rispondono ai loro spot, il business della pubblicità televisiva via streaming crescerà.
In questo scenario, le piattaforme che saranno in grado di offrire la migliore misurazione faranno la parte del leone. Una ricerca condotta dalla divisione advertising di Samsung, inoltre, ha rivelato che questo tipo di pubblicità è più coinvolgente ed efficace di quella sulla televisione tradizionale. Un campione di spettatori provenienti da quattro mercati chiave per il settore – Gran Bretagna, Germania, Australia e India – ha definito come «più brevi» e per questo «meno intrusivi» gli spot all’interno dei servizi televisivi in streaming gratuiti supportati da pubblicità (Fast) e dei servizi video on demand con pubblicità (Avod).
Gli annunci sono stati descritti come maggiormente «emozionanti», «piacevoli» e «pertinenti», ricevendo punteggi migliori in termini di affidabilità e gradimento.