«Qualunque mezzo di comunicazione ti modifica. I libri ti modificano, la tv ti modifica, la radio ti modifica. La vita sociale in un paesino nel sedicesimo secolo ti modifica. Ma la domanda diventa: da chi vuoi venire cambiato, e fino a che punto?». Lo dice Zadie Smith in un podcast del New York Times, in cui spiega più articolatamente del solito una cosa di cui tutti noi che l’abbiamo intervistata negli ultimi quindici anni abbiamo preteso di parlare: la sua scelta di non avere un telefono connesso all’internet.
L’anno scorso l’ho intervistata su Zoom, lei a Londra e io a Bologna, e il dettaglio che più mi ha fatto ridere è che, in un’intervista il cui video era concordato non venisse registrato (livello di paranoia fin lì abbastanza normale: dai un’intervista struccata per la stampa scritta e magari ti ritrovi il tuo faccione su un sito, non si può mai sapere), a un certo punto il marito passava da un corridoio, lei voleva dirgli qualcosa, lui ha aperto la porta dello studio dal quale lei stava parlando con me, e lei ha bruscamente abbassato lo schermo del computer.
Se non vuoi che un’estranea veda tuo marito che s’affaccia, non sei probabilmente portata per mettere la tua vita in piazza ogni giorno, in balìa della gentilezza o della stronzaggine degli sconosciuti, e questa mi sembra la più sensata ragione per risparmiare a te stessa un telefono con la telecamera e una qualsivoglia presenza social («Le tecnologie non sono neutrali: sono una filosofia e un’ideologia», dice nello stesso podcast).
Il 1940 è l’anno in cui negli Stati Uniti escono “Il grande dittatore”, “Dieci piccoli indiani”, e le prime calze di nylon. È l’anno in cui l’Italia entra nella seconda guerra mondiale e nascono mio padre, Francesco Guccini, e Paolo Guzzanti. Mio padre per fortuna è morto, Francesco Guccini per fortuna ha un rifiuto ancora più netto di Zadie Smith rispetto alle nuove tecnologie (lei ha un cellulare non intelligente, lui non ne ha neppure uno primitivo), Paolo Guzzanti mercoledì si è aperto un account TikTok.
Lo fece anche Silvio Berlusconi, vi ricorderete di quando i portatori di spirito di patate irridevano i suoi video, perché d’altra parte non è che puoi pretendere che l’elettorato col cervello brasato dai telefoni con la telecamera venga in piazza per un comizio o si guardi un’ora di tribuna politica. L’elettorato, prontissimo a dichiararsi nostalgico di Berlinguer vestito da ufficio in spiaggia, è però figlio di questo secolo, ha uno span di attenzione di cinque secondi e in confronto quando guardava Rete4 era portato per la gnoseologia.
Non tutti possono permettersi d’essere Zadie Smith e fare resistenza nei confronti del mercato, e con la vita media che si allunga finisce così: che Paolo Guzzanti, che ha dieci anni di più di quanti ne avesse mio nonno quando trovava disdicevole ch’io indossassi una felpa con la foto dei Beatles, decide che si presenterà ai giovani d’oggi coi mezzi d’oggi, cioè un telefono con la telecamera e un account TikTok.
C’è una discussione che ho fatto almeno mille volte negli ultimi cinque anni, cioè da quando ho scritto “L’era della suscettibilità”, e quella discussione è: siamo diventati più scemi o è solo che gli strumenti odierni ci danno modo di vedere scemenze che un tempo avremmo ignorato? Ne ho parlato con migliaia di persone perché questo è il tema che interessa a tutti: a quelli convinti che scemi siano sempre gli altri, e a quelli col dubbio di stare instupidendosi pure loro.
E perché, se qualunque neurologo sa spiegare i danni che i nuovi strumenti fanno ai cervelli in via di sviluppo, abbiamo tutti molti dubbi sui danni che fanno a noialtri dell’età dei datteri: eravamo così scemi anche prima ma non avevamo modo di mostrarlo al mondo? Se Reagan avesse avuto i social nell’84, avrebbe effettivamente twittato «Odio gli Wham!»?
«I social sono stati una buona invenzione? Un modo di quantificare il valore d’un prodotto è scoprire quante delle persone che lo usano desidererebbero che non fosse mai stato inventato»: è l’incipit d’un editoriale sul New York Times uscito lo stesso giorno in cui, sul suo fresco TikTok, Paolo Guzzanti ha fatto il suo primo video, un video che non è stato notato quanto sarebbe successo se, quel giorno, non fossimo tutti stati impegnati con un bisticcio (in analfabetese: un beef) che coinvolgeva tre cantanti senza canzoni, uno è l’ex marito della Ferragni e gli altri due boh, che pubblicavano invettive (in analfabetese: dissing) l’uno contro l’altro, coinvolgendo accuse variopinte, ex fidanzate, ex mogli, metriche zoppicanti, e in generale il livello qualitativo cui ci ha abituati la democrazia nella cultura.
Se tutti possono improvvisarsi parolieri accendendo la telecamera del telefono, difficilmente ci sarà un pienone di Tom Waits o di Francesco Guccini. Niente selezione all’ingresso doveva essere il criterio politico: è diventato quello culturale.
Mentre noi ci distraevamo coi giovanotti tatuati su Instagram, su TikTok Paolo Guzzanti stava spiegando chi è, cos’ha fatto, di sinistra, di destra, Repubblica, Il Giornale, l’inviato all’estero, la rava, la fava. Naturalmente il pubblico delle curve non lo ascolta perché non ha quel tipo di intelligenza che Paolo Guzzanti conserva a 84 anni, quella che gli fa dire che i momenti più belli sono quelli in cui ha potuto dire «mi ero sbagliato, non avevo capito niente». E, non ascoltandolo, si perde ciò su cui io e altri abbiamo passato il mercoledì pomeriggio.
«Io come giornalista ho viaggiato abbastanza», dice, e poi aggiunge una cosa che io e tutte le persone cui ho mandato il video abbiamo riascoltato decine (di migliaia) di volte, perché forse avevamo capito male, perché forse era solo il nome d’un posto che suonava simile a, perché non può averlo detto davvero, dai, dimmi tu cosa senti alla fine di questo elenco di posti che ha coperto per i suoi giornali. (Il giorno dopo, ieri, ha fatto un secondo video ringraziando per aver avuto ventiduemila «spettatori» – che parola adorabilmente novecentesca – e io sono tornata per la ventiduemilaeunesima volta a quel passaggio verso il nono minuto del primo, perché neanche dopo ventiduemila volte potevo crederci).
«Ho viaggiato, non ho visto tutto, per esempio non ho visto la fica nera. Un po’ per mia scelta, perché la fica nera dà dei forti sentimenti, io ne ho già tanti di mio e non riesco a ospitarne di più». Per ventiduemila volte ho pensato ai comici e agli sceneggiatori, ci penso ogni volta che sono costretta a constatare che le opere d’ingegno vengono ormai superate dalla realtà ventiduemila volte al giorno, in corsia d’emergenza.
Per ventiduemila volte ho pensato ai miei amici che, in anni di discussioni sugli effetti della tecnologia, hanno concluso che siamo sempre stati tutti impresentabili, e prima lo sapevano solo i nostri amici a cena, e ora accendiamo il telefono e lo sa il mondo. E, dopo ventitremila volte a tornare indietro e riascoltare, ho pensato a Zadie Smith: «Non credo che nessuno della mia età, che conosca qualcuno che conosceva già nel 2008, possa pensare che quella persona non è stata seriamente modificata dalla tecnologia». Forse non siamo più scemi di prima, è peggio: siamo più incontinenti, più esibizionisti, più in balìa degli umori degli altri e del nostro bisogno d’attenzione.
Forse, se Guccini oltre all’intelligenza conserva un contegno, è perché non si è mai fatto un autoscatto. Forse, più che per la corteccia prefrontale non formata dei nostri eredi, dovremmo chiedere alle nuove tecnologie i danni per il senso del pudore che hanno fatto sparire dal cervello novecentesco degli anziani di casa. Anziani che siamo noi, nessuno si senta offeso.