«Un accordo di pace tra Ucraina e Russia allo stato attuale equivale a un tradimento dell’Europa nei confronti di Kyjiv, la vera soluzione sarebbe costringere Mosca a chiedere dei negoziati perché incapace di portare avanti la guerra». Gabrielius Landsbergis è stato ministro degli Esteri della Lituania fino al 12 dicembre scorso e da quando è iniziata l’invasione su vasta scala la sua è stata una delle voci più assertive in Europa sulla necessità di condannare la Russia in tutti i modi possibili. Adesso non parla più in qualità di ministro, ma prova a far sentire la sua voce su altri canali: ha creato una newsletter, sta lavorando a un libro sulla guerra in Ucraina, il suo profilo X è uno dei più interessanti per capire dove sta andando la diplomazia europea. Ha sempre lo stesso approccio: inflessibile con l’imperialismo di Vladimir Putin, al fianco degli ucraini a ogni costo, per tutto il tempo necessario.
In Europa, Lansbergis si è scontrato soprattutto con i sostenitori della “linea Merkel”, cioè chi chiede politica di dialogo e appeasement con Mosca nel tentativo di ammansirla. Nel 2022 ha usato il termine “Westsplaining” per indicare l’atteggiamento di supponenza con cui parte dell’Europa occidentale ha provato a suggerire, o imporre, questo approccio ai Paesi dell’est.
Gabrielius Landsbergis, cosa spinge l’Europa occidentale a un atteggiamento così morbido verso la Russia?
Ci sono diverse ragioni. Molte persone sono convinte che esista una cultura russa distinta dal regime, e che dobbiamo mantenere vivi i legami con quella parte del Paese. Poi possono esserci ragioni economiche, diciamo pure pragmatiche, fino ad arrivare alla corruzione di alcuni soggetti, che è già ampiamente documentata. Questo crea una frammentazione pericolosa. Stiamo vivendo la più grande crisi geopolitica del continente dalla Seconda guerra mondiale e sappiamo che la Russia non ha intenzione di fermarsi all’Ucraina. Ma questo messaggio, che agli ucraini e a noi dei Paesi baltici sembra scontato, diventa sempre più diluito e impalpabile man mano che si va verso Occidente e verso Sud.
L’Europa occidentale è più vulnerabile alla propaganda russa?
Penso di sì, per una serie di ragioni. C’è un senso di urgenza e di pericolo diverso in Europa orientale. Ce l’ha insegnato la nostra storia e ce lo ricorda ogni giorno nostra geografia. Noi lituani abbiamo vissuto sotto la pressione della Russia, se vogliamo chiamarla così, per decenni dopo aver riconquistato la nostra indipendenza. Mosca è sempre stata presente, con le sue influenze, nella nostra campagna elettorale. E quando queste cose hanno iniziato ad accadere anche in Francia e in altri Paesi, noi avevamo un’esperienza ventennale in materia: vuol dire che le nostre istituzioni erano già preparate per affrontare la minaccia russa. È per questo che possiamo avere la presunzione di spiegare all’Europa occidentale come funziona. Ci siamo già passati.
Quello che vale per la politica e le istituzioni vale anche per la società civile?
Certo, vorrei menzionare un paio di cose per spiegarmi meglio.
Certo.
La prima è che l’empatia che abbiamo noi verso gli ucraini raramente la ritrovo in un’altra parte del mondo. Posso dire che il cuore ucraino batte anche in Lituania: se gli ucraini sono in lutto, i lituani sono in lutto, se gli ucraini sono felici, i lituani sono felici. So che può sembrare strano, ma è davvero così in questo Paese.
E la seconda?
La seconda è un aneddoto che spiega cosa vuol dire esserci già stati, in questa situazione. È la storia del volo Ryanair dirottato dalla Bielorussia nel 2021. All’epoca ero ministro degli Esteri da circa sei mesi. Il primo documento di quel dossier che ho avuto tra le mani parlava di un volo Atene-Vilnius che non era riuscito ad atterrare e aveva virato su Minsk. Ricordo che all’inizio a parte noi lituani nessuno pensava che si trattasse di un dirottamento. Perché nel novantanove per cento dei casi, se senti che un aereo deve atterrare a Roma e invece atterra a Milano o lì vicino, pensi che ci siano ragioni tecniche. Ma qui in Lituania nessuno ha pensato che si trattasse di una cosa del genere, né di un incidente. Tutti sapevano che c’era dietro una manovra di Russia e Bielorussia. Penso che se accadesse oggi, tutta l’Europa sarebbe in grado di arrivare alle nostre stesse conclusioni.
Nella sua newsletter ha scritto che quest’epoca somiglia al 1938, uno dei momenti che hanno cambiato, in peggio, la storia del mondo. Quanto siamo vicini a quello scenario?
Direi molto. Negli ultimi tre anni abbiamo avuto la sensazione di vivere in una di quelle epoche in si scrivono pagine di storia, in cui quasi ogni giorno succede qualcosa di rilevante. Quel che volevo dire anche nella newsletter è che tutto potrebbe allinearsi per lo scenario peggiore possibile, cioè uno in cui l’Ucraina è stanca, la Russia ottiene dei successi sul campo e l’Occidente è incapace di impegnarsi costringendo Kyjiv a negoziare contro i suoi migliori interessi. In poche parole, guarda la Cecoslovacchia nel 1938 e troverai esattamente la stessa situazione.
Forse anche per questo in Europa è in corso uno slittamento politico verso Est, come dimostrano il protagonismo di Donald Tusk, le nomine di Kaja Kallas e Andrius Kubilius in ruoli chiave della politica estera e di difesa europea. È davvero in atto un cambiamento che può aiutare l’Europa a difendere l’Ucraina e se stessa, o è solo wishful thinking?
Penso che sia un cambiamento reale, interessante da seguire. La Polonia e il gruppo nordico-baltico stanno diventando sempre più rilevanti, soprattutto quando si tratta di sostenere l’Ucraina. Aggiungiamo che Germania e Francia stanno vivendo una fase politica difficile e si intuisce che si sta costruendo una nuova dinamica. Ora dobbiamo chiederci se da questa situazione possa emergere, a livello europeo, anche un nuovo approccio politico. Possiamo almeno sperare che sarà così.
Intanto alcuni leader europei, come ha fatto anche lo stesso Tusk, ha detto che sono possibili colloqui di pace per i prossimi mesi. Ma se il messaggio è non fidarsi della Russia, come facciamo a parlare di negoziati? Dopotutto, sono già stati violati in passato gli accordi di Minsk.
Se la situazione rimane la stessa di adesso, non possiamo nemmeno parlarne: i negoziati in questo momento sarebbero una capitolazione e un tradimento dell’Ucraina. L’unico modo in cui dobbiamo guardare alla situazione è chiederci se siamo in grado di creare le condizioni per costringere la Russia a negoziare perché sa che non può vincere. Dobbiamo fare in modo che Mosca pensi: “Abbiamo bisogno di negoziati perché la nostra economia è debole, l’impegno europeo è troppo forte e noi stiamo per perdere la guerra, quindi è meglio negoziare”. Solo che per arrivare a questo punto abbiamo bisogno di dare un enorme sostegno all’Ucraina, molto superiore rispetto a quello che abbiamo fatto fin qui.
A partire da cosa?
Abbiamo bisogno di garanzie di sicurezza molto chiare per l’Ucraina. Qui la storia ci dà una mano, se stabiliamo un cessate il fuoco adesso, Putin semplicemente non lo rispetterà, come già accaduto in passato: non serve un dottorato di ricerca in storia per leggere gli accordi del 2014 e il modo in cui l’Ucraina è stata costretta a negoziare. Ma a cosa ha portato quella pace lì? Niente, solo una nuova guerra. Perché dovremmo aspettarci risultati diversi stavolta?
Si parla anche di soluzione coreana, missioni di peacekeeping e soldati europei al fronte. Di quali altre garanzie ha bisogno l’Ucraina?
Le garanzie di sicurezza, prima di tutto, sono una forma garanzia di difesa reciproca: se verrai attaccato, ti aiuteremo. L’Europa non deve essere credibile solo con il Paese con cui fa l’accordo, ma anche nei confronti dell’aggressore. Qui è prezioso l’insegnamento dell’accordo di Budapest: se non trovi un accordo credibile, non verrà rispettato. Per questo penso che la soluzione coreana possa essere un’opzione sul tavolo. Poi, certo, andrebbe chiarita e definita nei dettagli, perché non è facile organizzare una missione di questo tipo. In Corea del Sud, ad esempio, ci sono truppe statunitensi che non hanno solo una funzione di deterrenza, ma sono lì anche per la difesa, nel caso in cui fosse necessario.
Riprendo ancora la sua newsletter. Ha scritto: «L’unico piano sensato è rendere l’Europa sicura dalla Russia, economicamente indipendente dalla Russia, qualunque cosa accada in Russia». Come possiamo riuscire a raggiungere questo obiettivo?
Innanzitutto, ogni cosa deve iniziare dall’Ucraina. La nostra sicurezza non è scindibile da quella dell’Ucraina. Se Kyjiv non è al sicuro, l’Europa non è al sicuro. Allora dobbiamo riprendere quello spirito che abbiamo visto con l’impegno congiunto per la lotta alla pandemia. In quell’occasione, nel 2020, l’intera Europa ha concordato che va ripensato il modo in cui funziona l’Unione europea, anche a livello economico. Lì abbiamo cambiato le regole, siamo riusciti a garantire 750 miliardi di euro per aiutare i Paesi a superare i problemi portati dal Covid. Lo abbiamo fatto perché era una situazione di crisi. Ora, con la guerra a due passi da casa, dobbiamo prima di tutto concordare di essere in un’altra situazione di crisi.
Il rinnovato impegno europeo in cosa si dovrebbe tradurre?
Prima di tutto in approvvigionamento comune di equipaggiamenti per la difesa, dobbiamo consentire alle nostre industrie militari di cooperare meglio.
Sul fronte delle sanzioni, invece?
La mia sensazione è sempre stata che dobbiamo essere più agili, che vuol dire sapersi adattare a situazioni nuove e diverse ogni volta. Se l’obiettivo è non permettere alla Russia di ricostruire e riarmarsi, quando vediamo che Mosca trova una strada alternativa aggirando le sanzioni dobbiamo bloccare anche quella. E parlo dei Paesi che circondano la Russia, quelli dell’Asia centrale, che aiutano Mosca ad aggirare le sanzioni ma non vengono perseguiti. Oppure la flotta ombra che porta il petrolio russo in tutto il mondo. Sono triangolazioni che influenzano l’economia globale e stanno aiutando la Russia a ricostruirsi. Purtroppo la nostra risposta a questi cambiamenti è sempre molto lenta.
Dal giorno delle elezioni americane si dice che la vittoria di Donald Trump deve essere una sveglia per l’Europa, soprattutto sul fronte della difesa. Ma è un’altra situazione che abbiamo in parte già visto e vissuto nel 2016. Allora che cosa cambierà con l’amministrazione Trump, per l’Ucraina e per l’Occidente?
Siamo molto bravi a rinviare la sveglia (ride, ndr). Dovremmo chiederci che tipo di crisi ci serve per svegliarci davvero. Serve una guerra ancora più grande, una guerra che mettere alla prova l’integrità della Nato? L’elezione di Trump dovrebbe suggerirci un grande cambiamento sul fronte della difesa, penso anche che alcuni Paesi che si stiano già preparando per lavorare meglio con questa amministrazione entrante, pensando a come trovare un terreno comune e una certa unità d’intenti dove possibile. Ma non sono del tutto convinto che sarà un campanello d’allarme.
Il Varieties of Democracy Institute ha pubblicato un rapporto annuale sullo stato della democrazia nel mondo e dice che il quadro è peggiore rispetto agli anni Trenta del Novecento. Stiamo vivendo una fase di rigetto delle liberaldemocrazie?
Il mondo è un posto più pericoloso rispetto a qualche anno fa. Possiamo cercare una similitudine nella tettonica a placche, e vediamo che queste placche si stanno muovendo più velocemente di prima e creano più punti di attrito. Le zone più calde a livello geopolitico si trovano proprio nei punti di contatto, quindi in Medio Oriente, nell’Indo-Pacifico, la stessa Lituania ovviamente è uno di quelli che chiamiamo Paesi in prima linea, dove sono posti l’uno di fronte all’altro soggetti politici con una forma di Stato e di governo diversa. Sta accadendo ovunque nel mondo e in quei punti si fa la storia, in un certo senso.
È in questi luoghi che le democrazie stanno perdendo?
È presto per dirlo ora. Ma di sicuro molti problemi del mondo democratico nascono da una perdita di fiducia in quei sistemi politici. In qualche modo ci siamo abituati all’idea che siamo troppo deboli per resistere in un mondo più aggressivo. Ma in realtà non è così. Quando parliamo di Paesi democratici parliamo di Stati che hanno soldi, capacità di innovazione, conoscenze, accordi di protezione internazionale, sistemi legali più sani di altri, governi che si reggono sulla fiducia dei cittadini. Negli ultimi tre anni però ci siamo lasciati convincere dalla narrazione putiniana che vuole l’Ucraina destinata a capitolare, l’Occidente diviso e la Nato è defunta. E questo non perché Putin sia così forte, ma perché noi crediamo di essere deboli. E se restiamo a lungo in questa realtà, in questa condizione, allora sì, le autocrazie possono vincere. Ma sono assolutamente certo che siamo noi a dipingere questo quadro.
Un’ultima cosa. Che cosa farà nei prossimi mesi?
Sto lavorando a un libro che è in fase di editing, un diario che ho tenuto dall’inizio della guerra. E da ex ministro di un Paese in prima linea come il mio penso che abbia degli spunti interessanti. Poi ho in cantiere qualcosa di meno strutturato, che non saprei ancora dire con certezza che forma avrà. So che sento il bisogno di continuare a parlare delle cose che credo siano importanti e voglio rimanere attivo sul fronte della politica internazionale, come voce indipendente. Perché in tutto questo rumore di fondo chi lotta per la libertà e la democrazia ha bisogno di una mano. E se c’è un piccolo contributo che posso dare in tal senso, continuerò a farlo. In un modo o nell’altro.