In una vecchia puntata di “Comedians in cars getting coffee”, il più importante intellettuale vivente, Chris Rock, dice a Jerry Seinfeld: «Mi chiedono cinquemila dollari come se mi chiedessero l’ora. Non mi danno neanche il tempo di mettermi a sedere, e già stanno dicendo: prestami cinquemila dollari».
È una puntata del 2013, e sembra di trecento anni fa. È una lamentela, quella di chi ha preso l’ascensore sociale ed è diventato quello ricco e gli amici e i parenti rimasti poveri si aspettano di venire mantenuti, legata a un tempo finito: quello in cui chi faceva la vita da ricco aveva i soldi.
C’è uno splendido film del 1981, “Ricche e famose”, in cui Jacqueline Bisset, scrittrice premiatissima newyorkese, va a trovare la sua ex compagna d’università Candice Bergen, che fa la moglie in una casa sulla spiaggia in California. A un certo punto dice al marito dell’amica la battuta da cui il film prende il titolo: si sente a disagio, alla festa organizzata in suo onore, perché «qui sono tutti ricchi e famosi: io sono solo famosa». Quando da piccina mandavo a memoria i litigi nevrotici tra le due in quel film di rara perfezione, non sapevo che qualche decennio dopo essere solo famosa, e fare perciò la vita da ricca a scrocco, sarebbe stata la norma.
L’altro giorno guardavo il sito nuziale di due sessantenni famosi e quindi teoricamente benestanti. C’era, là dove tradizione avrebbe voluto una lista di nozze fatta di elettrodomestici e piatti, l’iban per il viaggio di nozze, come si usa adesso che ci si sposa tra già conviventi e non si deve metter su casa con l’aiuto degli invitati.
La persona che me l’ha fatto vedere era scandalizzata dalla volgarità del fornire l’iban – diamine, siete famosi e quindi ricchi – ma io mi chiedevo se sarebbe stata tanto meglio una tradizionale lista dei regali. Avevano un senso quando ti sposavi vergine o giù di lì: hai sessant’anni, convivi, devo comprarti le pentole? Quand’è che abbiamo tutti smesso di provvedere a noi stessi, sempre in cerca d’una donazione, d’uno sponsor, d’una raccolta fondi?
Tempo fa una tizia che chiedeva soldi su un social per pagarsi casa ha detto d’aver donato a non so quale altra elemosina on line. Qualcuno l’ha rimproverata – non hai soldi e li dai ad altri – e lei ha detto che se tutti facessero così risolveremmo i problemi del mondo. Ma, se tutti doniamo a tutti, non facciamo prima a tenerci tutti i nostri emolumenti e a badare ognuno a sé stesso come bambini grandi?
In uno dei posti nei quali vado a farmi la messinpiega, c’è baruffa tra i due parrucchieri: nell’imminenza della sagra di quartiere per la quale la via verrà chiusa e sfileranno modelle e tutti i negozi verranno addobbati a festa, a loro è stato assegnato il compito di pettinare le modelle; quello che ha una cospicua presenza Instagram dice che devono farlo per pubblicità, l’altro pensa che debbano novecentescamente farsi pagare. Il primo è più nello spirito del presente, l’altro temo che veda il futuro.
Sono state fatte molte riflessioni sulla parabola-Ferragni, e sono state formulate molte domande: tornerà?, si reinventerà?, è finito tutto?, dovrà scoprirsi un qualche nuovo talento che non sia parlare con la telecamera del telefono? – eccetera.
Nessuno, mi pare, si è fatto la domanda sulla prossima disoccupazione degli uffici marketing. Quando verrà ufficializzato – so che una brava giornalista sta lavorando a un documentario su questo tema, e credo che il materiale che ha raccolto dimostri quel che non ci voleva un genio per intuire: l’influencer marketing non sposta mezza vendita – che investire sugli influencer è persino più inutile che investire nei giornali, e che forse è proprio morto il mondo della pubblicità, che ne sarà dei disgraziati che le aziende pagano per buttare da qualche parte quei budget lì, dei disgraziati che avranno finito i posti in cui buttare gli investimenti pubblicitari?
Torneranno al paese con le loro inutili lauree? Andranno a lavorare nella pizzeria degli zii? Il futuro professionale di chi va a scrocco negli alberghi di lusso supplied by e invited by e hashtagged by mi pare meno preoccupante: torneranno a dormire nei tre stelle, come prima di Instagram; ma c’è un intero ecosistema che sta per crollare.
Un intero universo di gente che non ha mai fatto un lavoro vero che si troverà a doverne imparare uno; e non sono quelli col lusso in usucapione: sono quelli che hanno convinto le aziende che regalare roba abbia un concreto ritorno, e non sia una forma di lancio di spaghetti contro il muro pregando il dio della pasta scotta che attecchiscano.
Ultimamente c’è in atto un’interessante presa della Bastiglia dei like. In un’epoca troppo satolla per fare la rivoluzione, chi sta col naso schiacciato sulle vetrine ha deciso d’essere rilevante, e che farà fallire l’universo degli scrocconi smettendo d’esserne pubblico. Si legge la frase «ho tolto il “segui”» da gente che, compitando il cancelletto #influcirco, si percepisce Di Vittorio nel 1944 (riferimento che faticheranno a cogliere pure con Google, essendo il loro côté culturale fatto dei consigli editoriali di analfabeti di Instagram che si vantano di non seguire ma di cui annotano ogni sillaba).
Quel che non sanno, tapine, è che non cambia niente, giacché quel fanatismo che dimostrano andando comunque a guardare i video di derelitte che vivono a scrocco per poi dire quanto le disprezzano, quel fanatismo che rende le derelitte commentatrici assai più derelitte delle derelitte con la telecamera del telefono accesa (tutti i femminili sono sovraestesi), quel fanatismo lì le rende fan detrattrici, identiche alle fan veneratrici. Pensano di fare la rivoluzione, o almeno il Boicotta il Biscione, e continuano ad alimentare la conversazione collettiva sul niente.
Che, d’altra parte, è quel che è giusto succeda, così come è giusto che, nella classifica dei libri che vedremo domani sugli inserti culturali, non ci sia, dal tizio del man bun – ve lo ricordate? – in giù, un vero libro che sia uno. Un amico editore l’altro giorno mi ha fatto molto ridere dicendo «I conservatori stanno accettando il fatto che se vogliono sopravvivere si dovranno alleare coi fasci; e noi tutti che, se libri di merda vogliono, libri di merda faremo». Diceva la canzone: è difficile resistere al mercato, amore mio.
È giusto che vada così perché è sempre andata così, solo che si notava meno perché, a parte Gramsci che s’incomodava a studiare il pubblico di Carolina Invernizio, per il resto i consumi restavano separati: da una parte gli intellettuali, dall’altra mia nonna che leggeva Delly. Ora che uno col PhD ha il livello culturale che cent’anni fa aveva mia nonna con la terza media, ora che non si trova più un’edicola dove comprare i rotocalchi sui quali le mie zie leggevano di Soraya o di Carolina di Monaco, ora non ci resta che comprare tutti manuali d’autoaiuto e guardare la vita a scrocco dei ricchi per finta su Instagram.
Ma, siccome abbiamo risolto i problemi di sussistenza, abbiamo tutti il frigo e l’acqua corrente e persino il cashmere a prezzi popolari, la nostra reazione di fronte agli alberghi che non ci potremo mai permettere (e in cui nessuno c’inviterà mai a scrocco perché sull’internet non c’è abbastanza gente a detestarci e quindi a renderci appetibili agli uffici marketing), la nostra reazione la chiamiamo pomposamente invidia sociale, o senso di inadeguatezza, nei casi lessicalmente più traballanti addirittura depressione.
Chissà cosa avrebbero dovuto fare le nostre parenti che nel Novecento sfogliavano Architectural Digest e vedevano le case dei ricchi veri disegnate da Ettore Sottsass o da Frank Lloyd Wright, se noialtri ci facciamo venire il deficit di accudimento se non possiamo stare una notte a scrocco nella suite in cui invitano Paolo Stella. Forse aver sempre avuto l’acqua corrente non ci ha temprati, se siamo così fragili da cianciare di salute mentale davanti ai lussi a noleggio gratuito.
O forse è che mia zia poteva illudersi che degli abitanti delle magioni d’una volta sarebbe potuta diventare amica, e chiedere cinquemila dollari in prestito a Karl Lagerfeld o a Marella Agnelli; mentre noialtri, abitanti di questo povero secolo di poco ricchi, sappiamo che l’influencer del lusso, senza sponsor, sì e no ci può offrire un bicchier d’acqua. Di rubinetto.