Negli anni Settanta, tra i gruppi dell’estrema sinistra infuriava una concorrenza sfrenata a chi sapesse meglio interpretare il mondo e una irriducibile rivalità tra gruppi dirigenti, leader e leaderini. Uniti sui valori di fondo, i vari gruppi si dividevano nelle assemblee, avevano giornali diversi, si scavalcavano a vicenda restando inevitabilmente, anche per questo, sempre minoritari. La stessa sindrome concorrenzial-narcisistica in passato ha connotato, ma con molta più dignità politica, anche altre aree politiche, ad esempio i partiti laici nella Prima Repubblica. Oggi tocca all’ex Terzo polo, i cui due partiti principali, Italia Viva e Azione dopo «il patatrac leggendario» (Christian Rocca) delle elezioni Europee continuano a guardarsi in cagnesco e a “marcarsi” a vicenda.
Siamo sempre al “noi e loro”, proprio come Avanguardia operaia e Lotta continua cinquant’anni fa: com’è noto, tutti quei gruppi finirono male. La cosa più semplice che i terzopolisti dovrebbero fare, cioè mettersi finalmente d’accordo per creare una nuova “Cosa”, non la fanno nemmeno se li ammazzano (e sono stati ammazzati dagli elettori).
È partito invece un dibattito confuso sul «nuovo Terzo Polo», come lo ha chiamato Matteo Renzi, che però non ha fornito spunti di merito a parte il riferimento a una «nuova leadership» che taglierebbe fuori lui stesso e Carlo Calenda, il quale finora si è chiuso nel silenzio (anche a causa di un intervento chirurgico, auguri!), dopo aver dato la disponibilità a dimettersi se qualcuno glielo avesse chiesto – sapendo che nessuno lo avrebbe fatto.
Azione si è messa in modalità standby aspettando che passi una nottata di riflessione o forse che altri facciano la prima mossa: dov’è Federico Pizzarotti? PiùEuropa, infilatasi nel giochino del Terzo Polo pur non facendone parte, si è invece smarcata in direzione Partito democratico nel dignitoso ma inquietante silenzio di Emma Bonino.
È sceso in campo Luigi Marattin, forse troppo presto, subito bombardato da altri dirigenti di Italia Viva. Marattin è uno forte come temperamento e vivace intellettualmente, ma il suo progetto politico è ancora vago. Nel mondo intellettuale di area e su organi come Linkiesta, Il Riformista e il Foglio ci sono stati molti interventi interessanti pur dentro un quadro disorganico. Oscar Giannino, Chicco Testa e Claudio Velardi sul Foglio (ovviamente Velardi anche sul suo Riformista), Sergio Scalpelli e Massimo Ferlini ancora sul Riformista, Ivan Scalfarotto, Beppe Facchetti, Valerio Federico di PiùEuropa, oltre Christian Rocca, su Linkiesta hanno svolto ampi ragionamenti sulla direzione che questo nuovo Terzo polo dovrebbe prendere.
Sono emerse risposte anche molto diverse, ma si è evidenziata la vivacità del dibattito di osservatori e intellettuali. La base che esterna quotidianamente sui social in generale difende i suoi leader di riferimento, i renziani Renzi, gli azionisti Calenda: non se ne esce.
I dirigenti non vanno molto oltre l’ottimismo della volontà: ripartiamo da qui, dal sette per cento complessivo, dicono. Ma per fare che? Bisognerebbe sciogliere preliminarmente qualche nodo strategico. Tipo: da che parte stiamo? Ma quasi tutti rifiutano l’idea di schierarsi. C’è in questo una testarda e ammirevole coerenza fondata sull’idea che tra i due poli ci siano le famose “praterie” che però alle Europee sono parse dei sentieri di campagna.
Le praterie, piaccia o meno, le stanno attraversando Giorgia Meloni e Elly Schlein: non è un’opinione, è un dato. E allora è difficile ripartire se non si sa per dove. Con chi. E senza aver deciso chi guida il volante: fuori Renzi e Calenda? E poi? Come si potrebbe imporre il silenzio a due esponenti di quel peso? Sono domande. La risposte scarseggiano. Purché non si finisca per crogiolarsi nell’autocoscienza e nelle lotte intestine, come i gruppettari di tanti anni fa.