Mai stata buonaNaomi Campbell non è Ferragni, e se ne fotte della tirannia dell’intimità

La modella britannica è al centro di un caso ben più grave di quello dell’influencer italiana, ma non subirà le stesse conseguenze perché, nell’epoca in cui si mostrano le proprie fragilità, farà sua la lezione di Elisabetta II, e continuerà a fatturare

AP/Lapresse

Per spiegare perché l’inciampo di Naomi Campbell è probabile non divenga il declino di Chiara Ferragni, è necessario partire da Boris Johnson. Anzi no, da Kate Middleton. Anzi no, da Teri Hatcher.

Nell’aprile del 2006, “Desperate Housewives” è alla fine della seconda stagione, ed è il prodotto televisivo del momento in un modo che è difficile da far capire a chi sappia leggere il mondo solo con gli strumenti di due decenni dopo, quando di prodotti televisivi del momento ce ne sono una cinquantina l’anno.

È la serie di cui tutti vogliono parlare in un universo in cui la tv si guarda in tv, in cui lanciare gli spaghetti contro il muro (cioè: provarle tutte, e farsi il segno della croce in attesa che qualcosa attecchisca) non è ancora il modello industriale delle piattaforme (le piattaforme nel 2006 non esistono: eravamo felici e non lo sapevamo), in cui una serie poteva fare di te una star.

Solo che “Desperate Housewives” è una serie corale, e a Teri Hatcher non basta la copertina del maggio 2005, quella in cui era insieme alle altre quattro. Teri Hatcher per una copertina da sola è disposta a tutto. Anche a dire che – che cosa disse, pur d’avere la copertina?

Per scoprirlo (disse che l’avevano molestata da piccola) sono dovuta andare a leggere un’intervista che feci a Graydon Carter, allora direttore dell’unico Vanity Fair esistente (quello americano), che definì quello il suo «periodo da tabloid», aggiungendo «non ho giustificazioni, se non che è impossibile non prendere mai decisioni stupide».

Mi sono dovuta rileggere perché, da quando con quella copertina a Teri Hatcher cominciò il giornalismo confessionale, il problema si è incancrenito e le confessioni d’ogni trauma sono pane quotidiano non solo per avere copertine ma anche interviste nelle pagine interne.

Ci sono molte più serie tv, canzoni, celebrità assortite che smaniano per farsi notare, e il modo migliore per farsi notare è raccontare le proprie fragilità. Vale tutto, da «io madre imperfetta che ho spesso la tentazione di soffocare mio figlio» (il cane no, se dici che vuoi uccidere il cane non simpatizza nessuno) a «io che da piccola avevo i brufoli e non mi sono mai ripresa dal trauma di non essere la più carina della scuola».

L’ho già detto un milione di volte: è l’epoca del consenso, non quella del talento. Non serve recitare in un film imperdibile: serve avere una storia strappacuore da raccontare. Un editorialista del Times, James Marriott, ha trovato, rendendomi verde per l’invidia, la definizione perfetta quando Kate Middleton ha pubblicato il video sulla fine della chemioterapia: la tirannia dell’intimità. (L’ha trovata nel “Declino dell’uomo pubblico” di Richard Sennett, mica se l’è inventata, ma sono invidiosa anche delle citazioni giuste).

«Essere in grado di fare intime rivelazioni personali è ormai quasi un prerequisito per procurarsi una carriera che abbia a che fare con l’opinione pubblica». Marriott faceva esempi di politici – Starmer intervistato sulla malattia della madre, Cameron e Brown sulle morti dei figli – ma quella è una categoria che ha sempre vissuto innanzitutto di consenso, come d’altra parte i componenti delle famiglie reali: mi fanno meno impressione.

Quello che mi stravolge è quanto il pubblico di questo secolo sia incistato in relazioni parasociali che lo convincono che i personaggi pubblici gli debbano non un qualche talento – saper cantare, ballare, recitare, scrivere – ma un’affinità. Taylor Swift soffre per i fidanzati proprio come me, Benedetta Rossi vuole bene al cane proprio come me, Alessandro Piperno tifa Lazio proprio come me, a Martin Scorsese piace la pizza proprio come a me: non sappiamo cosa farcene della qualità delle opere (che comunque non sapremmo valutare, rimbecilliti da un mondo con una soglia TikTok d’attenzione), vogliamo solo illuderci che un domani potremmo prenderci una birra con gli autori senza bisticciare.

In questo universo qui, diventa perfettamente ovvio che, dieci mesi dopo, una torma di invasati ancora strilli al disonore ogni volta che vede comparire Chiara Ferragni; i pandori col cui logo e col cui zucchero a velo rosa, corro a strapparmi i capelli, non hanno dato in beneficenza tanti soldi quanti pensavamo. Quanti pensavamo noialtri convinti che lo zucchero a velo rosa salverà il mondo.

La settimana scorsa, dopo tre anni di indagini, un’apposita commissione inglese ha concluso che Naomi Campbell avrebbe usato per sé invece che per i bisognosi più o meno quattro milioni e mezzo di sterline, su quattro milioni e otto che ha raccolto la sua fondazione benefica, Fashion for Relief. Articoli ovviamente scandalizzatissimi hanno riportato che, a Cannes per una raccolta fondi, Naomi avrebbe pagato coi fondi benefici settemila e novecentotrentanove euro di servizio in camera e spa e sigarette (oltre a novemila e quattrocento per tre notti d’albergo, che chiunque abbia familiarità con le modelle degli anni Novanta e coi prezzi degli alberghi a cinque stelle sa essere cifra da saldi).

Leggo e non penso: la Chiara Ferragni d’Inghilterra. Leggo e penso: non succederà assolutamente nulla (le hanno già vietato di avviare attività benefiche per cinque anni: sai che punizione). Non succederà assolutamente nulla perché Naomi, diversamente da Chiara, non è la Lucy di “Quando lei era buona”: non ci deve la santità, non essendo divenuta famosa senza uno straccio di talento ma solo per essere una superficie riflettente su cui proiettare la nostra medietà.

Non è diventata famosa, Naomi, perché guarda che carini i figli, guarda che simpatico il cane, guarda che commozione ogni volta che rivede “Il re Leone”, guarda che sentimentale lui che le chiede di sposarla sul palco, guarda come ci esorta a essere noi stesse: non è diventata famosa perché ci dava la possibilità di specchiarci. Naomi Campbell, come accadeva nel Novecento, è diventata famosa perché era più di noi: più bella di noi, più ricca di noi, più arrogante di noi.

La cosa più famosa che ha fatto in quasi quarant’anni di carriera non è stata essere la prima modella nera sulla copertina di qualunque Vogue, comparire nel più noto tra i video di George Michael, essere amica di Nelson Mandela, disinfettare il sedile di prima classe dell’aereo volgarmente di linea su cui viaggiava, avere una mostra dedicata al Victoria & Albert Museum.

La cosa più famosa che ha fatto è stata lanciare un telefono a un’assistente. Non so neanche se sia vero o una leggenda, non è mai stato importante verificarlo, ma se dovessero chiedermi di spiegare la principale differenza tra il Novecento e ora direi: potevi essere famosa innanzitutto per aver picchiato la tua segretaria, e la tua carriera poteva non risentirne minimamente.

Ma sono altri tempi, diranno i miei piccoli lettori. Ma la bellezza mica è un talento, diranno altri piccoli lettori. E invece no, a tutt’e due le obiezioni. La bellezza da togliere il fiato – non la rassicurante caruccitudine delle Ferragni del mondo – certo che è un talento, e i tempi sono cambiati ma noialtri quelli che sono diventati famosi prima di questo tempo sbandato ormai ce li abbiamo nell’amigdala, e non li giudichiamo coi canoni di oggi.

Poi magari mi sbaglio, ma secondo me le multinazionali della moda – per cui Naomi stava sfilando a Milano mentre usciva la notizia della condanna inglese – non la metteranno al bando perché è diventata troppo intoccabile anche per fare da pubblico, alle sfilate. È senz’altro una coincidenza, ma: un giorno e mezzo dopo la condanna della commissione londinese, a Parigi Rachida Dati metteva al collo di Naomi l’onorificenza di cavaliere delle arti e delle lettere. 

Tra due settimane in Inghilterra esce “Unleashed”, il memoir di Boris Johnson. Contiene una lezione che Boris non ha imparato per tempo da Elisabetta II, e che Chiara Ferragni non ha imparato per tempo da noialtre che da anni ripetiamo il «mai lamentarsi, mai spiegarsi, mai scusarsi» elisabettiano. Il suo principale errore, ricostruisce l’ex primo ministro inglese, è stato «una serie di richieste di perdono piuttosto patetiche, anche quando non sapevo niente dei fatti per i quali stavo chiedendo perdono. Più strisciavo, più la gente s’incazzava». Naomi, ne sono certa, scuoterà la testa: lei non potrebbe mai fare l’errore di Boris.

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