Non ci poteva essere un balsamo migliore, per Giorgia Meloni, dell’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro in un momento difficile. Dopo il casino delle accise, le piroette, lo scarica barile tra alleati, l’accusa ai benzinai “speculatori” sul piede di guerra e con una battaglia elettorale in corso per le regionali.
Così lei può attraversare il capoluogo siciliano con la palma della sicurezza e della legalità. Quella che mancava per compensare i dispiaceri dovuti ai distinguo degli alleati, che prima hanno votato in Consiglio dei ministri, decidendo di reintrodurre le accise, e poi hanno tentato di cancellare le loro impronte digitali. A cominciare da quelle della Lega (Matteo Salvini in primis) e di Forza Italia, che devono farsi propaganda per recuperare consensi alle regionali di febbraio. Pure Silvio Berlusconi ha fatto sapere in giro che si è trattato del primo grave errore di Giorgia, «ah, se mi avesse consultato le avrei dato le dritte giuste». Parole e concetti riportati dalla stampa e mai smentiti.
Il messaggio è chiaro: cara Meloni, non è che puoi fare tutto da sola con la «logorrea» (termine usato da Giorgio Mulè) che sfoggi. E le nomine, per esempio, non le puoi decidere da sola con Giancarlo Giorgetti.
La situazione stava sfuggendo di mano. Così Antonio Tajani, che fa parte del giro stretto della Meloni insieme all’ineffabile Giorgetti, è stato richiamato all’ordine dal Cavaliere. «A che gioco stai giocando?», gli avrà chiesto. Meglio non dare soddisfazione ai media e all’opposizione sulle divisioni della maggioranza. Anche perché Tajani, in quanto ministro degli Esteri, dovrà apporre la prima firma al Meccanismo di stabilità economica – ovvero il Mes, un trattato internazionale che dovrà transitare per il Parlamento. E non tutti i senatori e deputati del centrodestra sono disposti a votarlo. Si pensi a tutti quelli della Lega e dei Fratelli d’Italia, a cominciare dai loro leader massimi, che ne hanno sempre parlato come il diavolo in terra europea.
Dunque bisognava serrare i classici ranghi, occorreva trovare un po’ di pace, anche perché il 2023 che attende il governo è veramente da far tremare le vene ai polsi. Allora Tajani, chiamato a rapporto, ha fatto di tutto per mettere pace tra il suo capo politico e la premier. Con la scusa di farle gli auguri per il suo quarantaseiesimo compleanno, il Cavaliere ha telefonato alla Meloni, smentendo i dissapori.
È una pax finta sull’altare delle nomine pubbliche, che sono quanto di più goloso ci sia nella politica del potere. Una pace che serve al Cavaliere per non farsi tagliare fuori quando la maggioranza al consiglio regionale della Lombardia e del Lazio sarà saldamente in mano ai Fratelli della Fiamma. Già Daniela Santanchè e Ignazio La Russa si lustrano gli artigli. Nomine e finanziamenti nella sanità, turismo, consorzi, imprese, le Olimpiadi sulla neve che vede direttamente coinvolte due Regioni a guida leghista. La sedimentazione del potere passa per queste prosaiche latitudini, come è notorio, senza troppo scandalizzarsi. Ma proprio per questo la pace armata conviene a Berlusconi e a Salvini, se non vogliono essere asfaltati dalla ruspa meloniana.
Il 2023 sarà un anno in cui Meloni e gli alleati si giocano tutto. A parte l’eventuale recessione, il vero macigno è l’autonomia differenziata, su cui i governatori del Carroccio, il Veneto di Luca Zaia in testa, battono come fabbri, tenendo sotto scacco Salvini, il ministro del Ponte di Messina. Ne abbiamo parlato in diversi articoli quando il tema era ancora sotto il pelo dell’acqua, mentre ora è diventato deflagrante. Anche perché il capo leghista ha detto che l’autonomia si farà entro il 2023, dettando un’agenda che Meloni non ha ancora scritto. La pace finta, appunto.
Che non potrà essere questo appena iniziato l’anno giusto per i sogni del Carroccio è più che evidente per due semplici motivi. Il primo, l’autonomia deve procedere di pari passo con il presidenzialismo o quel che sarà, con i passaggi e i tempi necessari a una riforma costituzionale, siano essi legati alla bicamerale o alla procedura costituzionale ex art. 138 e relativo passaggio referendario. Bene che vada se ne parlerà nel 2025. In mezzo, il prossimo anno, ci sono le europee in cui si vota con il proporzionale. Ognuno per sé, dio per tutti. Chissà l’effetto che avrà sugli equilibri della maggioranza se Salvini e Berlusconi prenderanno una scoppola da staccare loro la testa.
Ma tutto si compie e precipita, in un verso o nell’altro, nel 2023, che non può essere l’anno giusto per l’autonomia anche per un secondo motivo: non c’è l’accordo sul testo di Roberto Calderoli. Non c’è sui famosi Lep, i Livelli essenziali di prestazione, ovvero i servizi minimi e comuni a tutti i cittadini del nord e del sud. Non c’è accordo su come finanziarli. Non c’è neanche su quale strumento usare per introdurli, scriverli. Non potrà certo bastare un dpcm, ma servirà una legge quadro approvata dal Parlamento. Auguri!
Ecco allora che il 2023 potrebbe diventare un annus horribilis per il centrodestra. E per evitalo Meloni dovrà cercare di non essere troppo cattiva con gli alleati. Forse in questa chiave può essere letta la finta pace con Berlusconi. A Meloni serve il capo di Forza Italia per frenare Salvini sull’autonomia. Il Cavaliere sa che gli unici voti che gli sono rimasti sono concentrati in Sicilia e in Calabria, dove i suoi governatori della bozza Calderoli non ne vogliono sentire parlare. Anche perché se dovesse passare il criterio della spesa storica e dei cosiddetti residui fiscali loro sarebbero fortemente penalizzati; sarebbe la fine di quel poco di unità d’Italia che abbiamo.
Un anno orribile e sfiancante, costellato da tante altre retromarce rispetto al programma elettorale, alle battaglie storiche della destra. Trovare le risorse per continuare ad armare l’Ucraina, per abbassare le tasse e ridurre il cuneo fiscale, fare la riforma delle pensioni e superare quota 103. Tanti appuntamenti che richiedono una maggioranza coesa come una falange. E chi ci crede? Alle elezioni europee Meloni potrebbe arrivarci fiaccata, e si potrebbe realizzare la profezia di Matteo Renzi («Non supererà il 2024»).
Avrebbe bisogno di tanti arresti di altri delinquenti, di tanta legge e ordine per tenere alte le percentuali di voto e proiettarsi verso la fine della legislatura con una nuova maggioranza europea tra Popolari e i Conservatori, più clemente con lei.