Slava EvropiTutto ciò che l’Ue ha fatto per l’Ucraina finora (e quello che può ancora fare)

L’Unione europea ha preso decisioni senza precedenti per sostenere Kyjiv nel primo anno di guerra: aiuti economici e militari, porte aperte ai profughi e spiragli per l’adesione

LaPresse

Un anno è passato dall’inizio della guerra in Ucraina. Che non è solo una guerra contro l’Ucraina ma «contro la nostra energia, la nostra economia, i nostri valori e il nostro futuro»: parole di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2022. Questi dodici mesi hanno visto un coinvolgimento graduale ma inesorabile dell’Ue nel conflitto, portando i suoi leader a compiere passi difficilmente immaginabili prima che un evento così epocale stravolgesse i loro orizzonti.

Armi, denaro e permessi di soggiorno
Le istituzioni dell’Ue stimano in circa cinquanta miliardi di euro il sostegno complessivo garantito all’Ucraina, sia tramite strumenti comunitari che nazionali dei ventisette Stati membri.

La parte più consistente, 37,8 miliardi, riguarda la cosiddetta «assistenza macro-finanziaria» e umanitaria: cioè i soldi che servono al governo di Kyjiv per mantenere a galla i conti del Paese nonostante l’aggressione.

Non tutti sono versamenti a fondo perduto: ci sono ad esempio i diciotto miliardi promessi per il 2023 sottoforma di «prestiti altamente agevolati» (tre già erogati a gennaio), i 2,3 prestati dalla Banca europea per gli investimenti e andrà restituita anche una quota dei 7,8 miliardi assicurati dai singoli Stati dell’Ue.

Quasi un miliardo riguarda l’assistenza umanitaria in senso stretto: 668 milioni di euro per programmi di supporto favore dei civili colpiti dalla guerra (630 per l’Ucraina e trentotto per la Moldova), più 330 milioni di euro volti ad assicurare l’accesso a beni e servizi di prima necessità fra cui l’istruzione, l’assistenza sanitaria e l’alimentazione.

Ma per sostenere lo sforzo bellico di un Paese servono anche aiuti militari. E l’Unione non si è tirata indietro, con uno stanziamento complessivo di circa 12 miliardi. I tre quarti di questa cifra rappresentano il valore delle armi e dell’equipaggiamento militare fornito dai vari Stati membri, le cui consegne vengono quasi sempre mantenute segrete.

Arrivano direttamente dal bilancio europeo 3,6 miliardi, attraverso uno strumento chiamato European Peace Facility (Epf) e istituito nel 2021 per finanziare le operazioni militari svolte in Paesi terzi nell’interesse dell’Ue.

Le sette tranche di versamenti destinati all’Ucraina ne hanno più che dimezzato la dotazione complessiva, circa cinque miliardi e mezzo di euro fino al 2027. Finora l’Epf era stato utilizzato soprattutto per finanziare missioni di addestramento, in Paesi come Mali, Somalia o Niger. In questo caso invece si tratta di una «missione di assitenza militare»: per la prima volta l’Unione «compra» le armi a un Paese straniero, rimborsando i costi sostenuti dai suoi Stati membri per le forniture.

Accanto ai rifornimenti militari, distinti in equipaggiamento «letale» e «non-letale», ci sono comunque moduli di addestramento dei soldati ucraini organizzati in territorio europeo: a questo proposito l’Unione ha stanziato altri quarantacinque milioni di euro, oltre ai fondi dell’Epf.

La scelta di quante e quali armi inviare all’Ucraina non dipende dall’Unione Europea, ma dai singoli Stati. Tuttavia, come è stato evidenziato dal cambio di rotta del governo tedesco sulla fornitura di carri armati Leopard, il dialogo a livello comunitario influisce su ogni decisione. Anche perché, spiegano fonti diplomatiche a Linkiesta, spesso gli eserciti degli Stati membri hanno in dotazione armi assemblate in altri Paesi e per inviarle altrove serve l’assenso, o quantomeno la notifica, al produttore.

Dopo che alcuni governi dell’Unione si sono impegnati a consegnare carri armati a Kyjiv e mentre il presidente Volodymyr Zelensky continua a chiedere loro aerei da combattimento, il prossimo passo a livello europeo potrebbe essere acquistare armi in maniera congiunta, come fatto per i vaccini anti-Covid19 nel 2021: la stessa von der Leyen ha vagheggiato questa possibilità e il ministro degli Esteri dell’Estonia ha perfino presentato un piano da quattro miliardi per l’approvvigionamento comune di proiettili di artiglieria da 155 millimetri.

L’acquisto comune di munizioni rappresenta un tabù da sfatare per l’Unione, ma in questo anno di guerra infrangere le consuetudini non è una novità. Sul piano della politica migratoria, ad esempio, l’Ue ha adottato uno strumento mai utilizzato prima: la Direttiva sulla protezione temporanea (2001/55), che concede a tutti i cittadini ucraini un permesso di soggiorno nei suoi Stati membri.

I Ventisette non avevano voluto attivarla per i profughi afghani dopo il colpo di stato talebano dell’estate 2021, ma hanno impiegato pochi giorni per trovare un accordo dopo l’invasione dell’Ucraina.

In pratica, tutti gli ucraini (e i non ucraini che risiedevano nel Paese e che non possono tornare nel proprio) hanno diritto a restare nell’Ue fino a marzo 2024, senza la necessità di fare richiesta di asilo, come invece avviene per tutti gli altri migranti.

Secondo i dati Eurostat, al momento beneficiano della direttiva quattro milioni di persone, con Polonia e Germania che ne ospitano quasi un milione a testa. Ma di sicuro gli ucraini che hanno attraversato i confini dell’Unione in questi dodici mesi sono molti di più: alcuni non si sono registrati per la protezione, altri hanno già fatto ritorno nel proprio Paese.

Chi resta ha garantita assistenza sociale e sanitaria e può accedere al mercato del lavoro: la Commissione per facilitarne l’inserimento ha anche istituito una piattaforma di ricerca di lavoro online, chiamata EU Talent Pool.

Avvelenamento lento
Oltre ad aiutare gli ucraini, l’Unione Europea ha provato per un anno a fiaccare i russi, attraverso una lunga e articolata serie di sanzioni.

Nove pacchetti di misure restrittive sono stati approvati dal febbraio 2022: il primo un giorno prima dell’invasione, per punire il riconoscimento russo delle due repubbliche separatiste di Donestk e Lugansk, e il decimo dovrebbe scattare all’anniversario del conflitto.

In mezzo, il divieto per i velivoli russi di sorvolare lo spazio aereo europeo, il blocco delle esportazioni verso la Russia di prodotti di lusso e tecnologie utilizzabili in guerra, e delle importazioni da Mosca delle materie prime (esclusi cibo e fertilizzanti). Gli organi di informazione legati in qualche modo al Cremlino, come Sputnik e Russia Today sono stati oscurati nell’Ue ed è stato sospeso un accordo in vigore dal 2007 che consentiva ai cittadini russi di prendere il visto per l’Europa in maniera più rapida.

Con il passare dei mesi, la spirale delle sanzioni è cresciuta di forza e volume. Il terzo pacchetto, a marzo 2022, ha escluso la Banca centrale russa e altre banche dal sistema di pagamenti Swift; il quinto ad aprile ha messo il bando il carbone russo, il sesto a giugno il petrolio, pur tra deroghe ed eccezioni, mentre a dicembre gli Stati dell’Ue hanno faticosamente raggiunto l’accordo per un tetto ai prodotti petroliferi raffinati russi, che si applica anche alle esportazioni via mare di Mosca verso altri Paesi.

Al momento l’Unione non ha azzerato le sue forniture di combustibili fossili dalla Russia, ma ridotto considerevolmente la sua dipendenza. Il petrolio russo, che nel 2020 formava più di un quarto del totale importato, ora è passato al 14,4 per cento secondo i dati Eurostat relativi al terzo trimestre 2022. Ancora più impressionante il calo del gas, dal trentotto per cento al quindici per cento: il tetto al prezzo concordato a fine anno, che si applica al combustibile proveniente da tutto il mondo, contribuisce a ridurre le entrate russe.

Quasi 1400 persone, nel frattempo, sono entrate nella «lista nera» dell’Ue, con il divieto d’ingresso negli Stati del blocco comunitario e il congelamento dei beni detenuti in Europa. Tra questi ovviamente il presidente Vladimir Putin e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, il capo della milizia mercenaria Wagner Yevgeny Prigozhin, tutti i parlamentari della Duma, le alte cariche del Cremlino e un lungo elenco di oligarchi.

Secondo le stime, le loro proprietà nell’Ue valgono quasi venti miliardi, da aggiungere ai circa trecento di riserve congelate alla Banca centrale russa: la Commissione europea sta cercando un modo valido dal punto di vista giuridico per finanziare con questi soldi la ricostruzione dell’Ucraina.

L’impatto delle sanzioni europee sulla Russia è oggetto di ampio dibattito a livello comunitario: di sicuro non hanno fermato la guerra, ma altrettanto certamente stanno danneggiando l’economia russa. L’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri Josep Borrell le definisce un «veleno lento», che darà il meglio di sé con il passare del tempo. Per il momento, la Russia ha subito una contrazione del 4,5 per cento nel 2022 secondo la Banca mondiale, ma per il Fondo monetario internazionale la decrescita è più ridotta e nel 2023 il Paese potrebbe tornare a crescere dello 0,3 per cento.

I prossimi passi
Nell’arco dell’Unione, comunque, ci sono ancora diverse frecce per colpire la Russia. Alcune dalla portata limitata, come il divieto di importazione dei diamanti provenienti dalla Russia, un business complessivo da oltre quattro miliardi all’anno.

Altre forse più significative per scoraggiare il prosieguo del conflitto o minare ulteriormente l’economia russa, come l’istituzione di un tribunale speciale per giudicare il «crimine di aggressione» nei confronti dell’Ucraina: una sorta di «Norimberga» per Putin e gli alti ranghi del Cremlino. Oppure l’inclusione nelle sanzioni dell’industria nucleare russa, che fornisce circa un quinto dell’uranio importato dall’Ue: l’ultimo tassello in tema di disconnessione energetica da Mosca.

Nei confronti dell’Ucraina, invece, l’Unione sembra disposta a mantenere il sostegno umanitario, finanziario e militare per tutto il tempo necessario, «as long as it takes», come amano ripetere i vertici comunitari.

Meno decisione e meno concordia su un altro punto cruciale: l’ingresso nell’Unione dell’Ucraina. Che finora ha percorso a marce forzate un cammino di solito molto più lento, con lo status di Paese candidato garantito in meno di quattro mesi e segnali positivi nelle occasioni solenni. Ma che difficilmente avrà una corsia preferenziale in futuro, secondo chi conosce l’ambiente comunitario.

«La concessione dello status di Paese candidato si è basata sull’empatia e sulla volontà di dare al popolo ucraino la prospettiva di un futuro. Ma l’ingresso nell’Unione non dipenderà dall’empatia», dice a Linkiesta André Sapir, analista del think tank Bruegel e consigliere di Romano Prodi nella Commissione europea che ha presieduto il più grande allargamento nella storia dell’Unione, nel 2004.

A suo giudizio, la valutazione verrà effettuata dopo la fine del conflitto in modo oggettivo, tenendo in considerazione le riforme e i progressi del Paese. Se davvero c’è un «debito morale» degli europei nei confronti degli ucraini per questa guerra, sarà pagato in un altro modo.

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