Oltre le stecche delle righeLa vera letteratura è tutta ignota (ne conosciamo solo l’imitazione)

La quattordicesima puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Il cervello lavora a mimiche, non a parole, siamo noi che riduciamo tutto a parole»

di Taylor Wilcox, da Unsplash

Guardo fuori oltre le stecche delle righe. Queste linee orizzontali rendono meno falsa ogni visione (ti rendi almeno conto che tu sei al di qua, e questo è un fatto vero). Da che tutto appare ormai come uno schermo libero da ostacoli e da ingombri. Lo stesso schermo è un come. Il “come” è l’ostacolo e l’ingombro, ma è piattamente invisibile, un vero falsario. Così che tutto si adegua.

Da lontano le gambe di quella ragazza sono così indispensabili, così necessarie alla vista. La ragazza è ferma, Lesbia con l’uccellino tra le mani. Un nidiaceo appena raccolto (a dicembre siamo primaverili qui tra le righe). Quelle braccia piegate simmetricamente a elle, segno di intenso interesse, la cuspide delle mani unite a nido, nel nido ecco, sì, lo smartphone dalle ali tremanti, trillante, vivo. La gamba sinistra perpendicolare al suolo, la destra è l’ipotenusa del triangolo che ha per base quel tratto di suolo tra l’uno e l’altro piede nei sandali semplici a strisce di cuoio. La gamba destra dovrebbe essere abbastanza più lunga della sinistra per estendersi così in diagonale. Naturalmente non è così ma così appare. Non è così naturalmente ma è così a prima vista, la vista sostanziale. È così che avviene (in natura avvengono cose impossibili in natura). E poi la bellezza è distorsione. «Del senso, forse?» (Chi ha parlato, chi insinua, chi si sovrappone?).

Quanta letteratura è ignota, non nata dal pensiero, non tendente al senso ma nata dai sensi in frasi sgorganti, belle e fatte, le altrove temute frasi fatte, ma qui non verbali, bulicanti direi, bolle sonore, vere perle cerebrali direi, sì, lo direi, ma cerebrali senza intelletto, però lanciate in rincorse nei corridoi opalescenti del cervello, circonvolute perché volteggianti intorno al proprio stuzzicante perno, ecco, le sento, sfacciate, balzanti, queste frasi ciarliere e franche, impossibili a scriverle perché per esse le parole per dirle non sono che un come dirle, non sono le loro parole perché esse non sono a parole, esse frasi pullulanti non sono come dirle, ecco come non sono: così. Non sono nemmeno frasi, non è questa la parola, la parola non c’è. Ecco, punto.

Cosicché la vera letteratura è tutta ignota. Conosciamo l’imitazione, sì, l’imitazione come letteratura, ma niente di più. Conosciamo le parole che dicono come, conosciamo le parole allevate, ammaestrate, servili, le parole ammansite, che non ci ingannerebbero, ma noi sì le inganniamo, le facciamo uscire allo scoperto, le catturiamo, facendole vivere in cattività nei nostri serragli, per esibirle a chiacchiere, in prosa e in versi (in uova, carni, pellame, anche in colle), in quella specie di circo che è il parlare in continuazione, in una continua tournée.

Ma come lavora il cervello? (Dimentichiamo spesso, anche sempre, che il cervello è un lavoratore, sottopagato ma sopravvalutato). Ecco, come lavora? Lavora a mimiche, a mute mimiche, a gesti e atteggiamenti, lavora a smorfie, a moine, a boccacce, sì, boccacce, con una bocca chissà come e chissà dove rimediata (è anche spesso sboccato, il cervello). Ecco come lavora. Non lavora a parole. Siamo noi che riduciamo, sì, riduciamo (è la parola) tutto a parole.

Lo facciamo per pura viltà, per non passare da saltimbanchi (il cervello lo è, anche acrobata, anche buffone, anche scimmia scurrile, anche maleducato, maleducato d’istino, e allora?), lo facciamo per non passare da squilibrati, da dementi. «Oh, questa è bella», disse non so chi, «Questa è davvero bella: se ci comportassimo come si comporta il cervello, ci prenderebbero per dementi, quindi? È quindi demente il cervello? Ma insomma, suvvia», così disse (lo disse in un romanzo?), questa è davvero bella, disse, infatti è bella, bella e convincente, suvvia e insomma.

Così è, il cervello è mimico, come mimo ha capacità imitative spettacolari (lo spettacolo non è forse l’esibizione di una certa qual nostra imbecillità?). Noi vogliamo solo far passare per vera la diceria che le nostre vili parole siano sensate. Comunque sia, è notevole questo: che non ci siamo mai posti quella domanda.

Quale domanda? Da dove mai il cervello tragga le sue imitazioni, il suo varietà, da cosa, da che, da chi, quale sia il suo modello. Questa domanda.

Le lingue trascorse che ci arrivano in cocci, a frantumi, su terracotta ordinaria, i piccoli pezzi infranti di lirici e friabili cuori di pietra, le pagine vegetali e animali lacerate in coriandoli e stelle filanti, ecco, sono commoventi tentativi di fuga dall’opera fatta e finita, integrale, controllata, corretta, educata, composta (perché non mi piacciono questi aggettivi, perché ne diffido?).

Anche adesso, per dire (ecco appunto per dire) quelle foglie, quei tronchi, quel pezzo di cielo, quel pezzo di strada, l’auto che è passata a segmenti, quest’altra a porzioni, la moto a scie, il rombo a grappolo, frammenti di palazzi tra le foglie, ali nell’aria, tagli d’abiti: tutto accade a schegge, a scaglie, a squame (forse a bucce?).

I migliori autori di descrizioni falsano colori e proporzioni, creano blocchi, fenditure, tagli, squarci, spaccano la luce per il lungo e per il largo, la conficcano, l’affilano o la rendono pastosa e la spalmano, spesso lavorano sulla pagina come sul vetro, sulle formelle, su lastre d’argento, su latta, tagliando, profilando, martellando, spezzando e ricomponendo con grande perizia da piastrellisti in ceramica, marmo, gres, vetro, mattone.

Perché l’hai fatto?

Cosa?

I nostri segreti.

I versetti cantabili?

Le nostre parole.

Il posto è sicuro, chi vuoi che le tocchi. I versetti sono già frammenti sotto strati di polvere, la polvere della divulgazione, che si muove come una tempesta di sabbia (anche di neve, direi: sotto la quale sta acquattato quel sentimentalismo gelido e tagliente che tanto ti diverte). È già un bel risultato, no?

(Occhio, ci stanno leggendo).

Vorrebbero sapere cosa significa e non cos’è, cercano il come della cosa, non il cosa della cosa, sono cultori di somiglianze, chiunque traffica in parole lo è. Insomma, non solo nascondono i nostri segreti, organizzano anche le fughe dei nostri segreti. Il segreto, si sa, è incorruttibile, non lo corrompi con un significato, e non somiglia a nulla finché resta un segreto. Le abbiamo messe in banca quelle parole, in tutti i sensi (i sensi aspettano che suoni l’ora della riscossione, anche della ricreazione, quella vivace campanella). Ci rendiamo conto? Chi l’avrebbe mai detto? Chi ci ha mai pensato? Un certo giorno te ne rendi conto. È la vita puerile, infantile, adolescenziale, stupidamente giovanile che fa vivere la vita seguente, se ci arrivi e finché la vivi. Ma davvero hai avuto questa lucidità, questa freddezza? Io no.

Non io ma il ragazzino, lui le ha avute, quella lucidità e quella freddezza. Lui sì che era una lenza. L’implume, l’imberbe fino al primo pelo, quello ispido. Dopo di che non sei giovane mai più, anche quando giovane ancora lo sei ma di una giovinezza che è litigiosa con te che la porti. Proprio perché la porti.

Dove? Qui, per esempio. Anzi, non per esempio, esattamente qui.

(12 Continua)

Questa è l’undicesima puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la tredicesima puntata. Qui si può leggere la dodicesima.  Qui si può leggere la undicesimaQui si può leggere la decima.Qui la nona. Qui l’ottava. Qui la settima. Qui la sesta. Qui la quinta. Qui la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.

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