Viva l’EuropaGli unici tre partiti che si possono votare, e che cosa farò io

Chi legge e apprezza la battaglia anti populista di questo giornale sa che alle elezioni europee le opzioni accettabili sono al massimo tre, in realtà due, anzi una soltanto

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I lettori di questo giornale sanno che ci sono soltanto tre voti possibili alle elezioni Europee di oggi e domani: non credo che chi ci legge possa immaginare di votare per i partiti a cinque stelle o del capitano e del generale che non fa più fermate, neanche per pisciare.

Nessuno che frequenta queste pagine voterà per i filo russi o per quegli altri che stavano sul lettone di Putin. E nemmeno per i neo, ex, post fascisti, in momentanea pausa dall’aperitivo con Steve Bannon, il quale peraltro sta per andare in galera, ma sempre occupati con riti pagani e altre fascisterie da commedia all’italiana.

Concediamoci, almeno qui, il lusso di non considerare i piccoli latifondisti del surreale ambientalismo rosso italiano, né la compagnia di giro di Santoro che già dovrà fare i conti con la dichiarazione di voto di Guia Soncini.

Restano il Partito democratico, la coraggiosa corsa solitaria di Carlo Calenda e l’alleanza per gli Stati Uniti d’Europa di Matteo Renzi ed Emma Bonino.

Qui dentro ci infervoriamo da anni sul Partito democratico, l’unico partito costituzionale italiano nonché il solo pilastro che nel bene e nel male ha tenuto in piedi il Paese negli ultimi quindici anni.

Il Partito democratico attuale però ha deciso di mettere la marcia indietro, un po’ come ha fatto Giorgia Meloni per rallentare l’evoluzione verso una destra conservatrice iniziata da Alleanza Nazionale, per tornare invece alla fiamma tricolore che scalda il cuore dei reduci.

L’operazione nostalgica è riuscita perfettamente a Meloni, ma non è detto che riesca anche a Elly Schlein, visto che è già fallita in Gran Bretagna e in Francia, e in parte anche in Germania, tanto che con Keir Starmer e Raphael Glucksmann la sinistra tornata riformista e liberale sta per vivere una seconda giovinezza.

Schlein è rimasta bloccata al giro precedente, quello di Jeremy Corbyn e di Jean-Luc Mélenchon, e di suo ha aggiunto una dose di assemblearismo studentesco e di americanizzazione alla Alexandra Ocasio Cortez, non accorgendosi che AOC nei campus adesso è accusata di moderatismo.

Le liste del Partito democratico hanno molti buoni candidati, alcuni ottimi, a cominciare da Pina Picierno, Giorgio Gori, Irene Tinagli e Pier Maran che meritano di guidare la delegazione italiana al prossimo Parlamento europeo, ma anche e sopratutto, assieme a Lia Quartapelle, Filippo Sensi e altri, il partito nel futuro prossimo.

Schlein però ha messo in testa di lista anche dei candidati esterni al partito, scelti appositamente per la loro carica di pensiero antioccidentale e anticapitalista. La tesi secondo cui grazie a queste candidature il partito è più plurale è una scemenza come non se ne sentivano da tempo. Il partito plurale è una ricchezza se riesce a tenere insieme persone che condividono i fondamentali della convivenza civile, e poi la pensano diversamente su questioni importanti, importantissime, ma minori rispetto al collocamento internazionale del nostro Paese o alla difesa dei diritti individuali.

Ben venga la pluralità di idee sulle misure da adottare per l’economia, sulle riforme istituzionali, sul welfare, su qualsiasi cosa, ma a patto che siano circoscritte all’interno di un progetto comune. Un Pd che invita a votare candidati che vogliono abolire il capitalismo, passare alla dittatura e cancellare ogni tipo di protezione sociale non sarebbe un partito plurale, sarebbe una gabbia di matti. Lo stesso vale per un partito che oggi suggerisce ai militanti di votare gli “utili idioti” dell’imperialismo russo che vogliono sciogliere la Nato, che spiegano agli ucraini che devono farsi spianare dai carri armati come a Tien An Men e che si battono per lasciare via libera a Mosca.

Oggi è cosi. Domani, sempre per una maggiore e arricchente pluralità del partito, ci dobbiamo aspettare un candidato nazista, uno stalinista, un pasdaran sciita, un jihadista sunnita, un cannibale, un retequattrista?

Questo cedimento morale di Schlein non può essere premiato.

Carlo Calenda ha fatto una bella campagna elettorale, ha messo in lista ottimi candidati, preparati e competenti, anche se non tutti, come è ovvio: qui come sapete non siamo fan del sansepolcrista grillino Federico Pizzarotti e nemmeno di Daniele Nahum che tanto competente non è visto che, da capo della comunicazione della comunità ebraica di Milano, alcuni anni fa mi diede pubblicamente di «antisemita», destando sconcerto tra i vertici della stessa comunità (è finita che non è più il portavoce, è entrato ed uscito dal Pd, è oggetto di inaccettabili minacce antisemite da sinistra, e giovedì sera era in platea al Parenti di Milano ad applaudire un gran dibattito internazionale sull’antisemitismo moderato da me e organizzato dall’associazione Setteottobre che ho contribuito a fondare).

Conosco Calenda da oltre vent’anni, gli voglio molto bene, so che voleva fare un partito unitario liberal-democratico più di ogni altro, e apprezzo il suo impeto garibaldino grazie al quale si è presentato alle elezioni Europee da solo, rischiando di non superare il quattro per cento e di rompersi l’osso del collo.

A Calenda auguro che superi il quorum, perché sarebbe una sua grande vittoria politica e personale, ma non avrebbe dovuto rompere la federazione tra i partiti del Terzo Polo almeno fino alle Europee, tanto più che se riuscisse ad eleggere quattro eurodeputati questi poi si siederebbero nello stesso gruppo di Renzi e Bonino, e quindi non si capisce per quale motivo ha messo a rischio quasi tre milioni di voti liberali, europeisti e occidentali.

Fino a quando i sondaggi sono stati pubblici, ma in realtà anche dopo, Azione al massimo ha sfiorato la quota del quattro per cento. Ballano pochi decimali tra il quorum e la disfatta, può essere che superi il quattro per cento, così come che ci riesca anche Stati Uniti d’Europa.

Può anche essere che alla fine avrà ragione Francesco Cundari, la cui profezia incombe su tutti noi da quando ha scritto che Renzi e Calenda si fermeranno al 3,9 per cento, entrambi un soffio sotto la soglia del quorum.

Stando alle rilevazioni di questi mesi, tra le due è la lista Stati Uniti d’Europa di Renzi e Bonino quella con più possibilità di eleggere quattro, al massimo cinque, deputati a Bruxelles. Di questo bisogna tenere conto, per minimizzare il rischio di sprecare il voto a favore di una lista che non supera il quattro per cento e di conseguenza redistribuisce i suoi elettori sulle liste con le percentuali più alte.

Renzi e Bonino non hanno fatto una campagna elettorale memorabile, un po’ perché, come tutti, sono stati costretti dal livello rasoterra del dibattito pubblico a non volare alto, ma da loro mi sarei aspettato qualcosa di più sulla sfida principale del nostro tempo: la guerra convenzionale e ibrida scatenata dalla Russia all’Europa, non solo all’Ucraina ma anche ai sistemi liberaldemocratici e all’Occidente globale. Quale occasione migliore, per esempio, delle favolose manifestazioni dell’opposizone georgiana, colorate dalle bandiere europee e accompagnate dall’inno alla gioia, per sottolineare l’entusiasmante richiesta di Europa, e allontanamento dalla Russia, proveniente dai popoli liberi e dagli stati democratici, dall’Ucraina alla Georgia?

Anche nelle liste di Renzi e Bonino ci sono ottimi candidati, a cominciare dai leader, peraltro gli unici che si candidano per andare davvero a fare gli europarlamentari a Bruxelles e non come specchietti acchiappa voti. Con loro ci sono anche il gran garantista Giandomenico Caiazza, il liberale scozzese Graham Watson, il giornalista francese Eric Jozsef, un bel po’ di radicali, le ucraine Kateryna Shmorhay e Marina Sorina (c’è anche una candidata ucraina molto brava con Azione, Nataliya Kudryk), la giovanissima militante italiana che porta droni al fronte di Kharkiv Patrizia De Grazia, la dissidente bielorussa Olga Surinova, e la “russa libera” Maria Mikaelyan.

Anche qui ci sono candidature meno palatabili, molto meno, come quella di Gianfranco Librandi, imprenditore di Saronno e gran finanziatore di tutti i movimenti liberal-democratici italiani da anni, le cui posizioni sulla guerra russa sono pura chiacchiera da bar, non meritevoli di essere rappresentate nel gruppo di Renew.

La gran parte dei partiti italiani è umanamente invotabile, il Partito democratico plurale non può essere premiato, Calenda è più a rischio di Renzi e Bonino proprio per il fatto di essersi presentato da solo, e di averlo voluto fare lui, quindi oggi per un elettore riformista e liberale il voto più sicuro, anche se non sicurissimo, è quello per Stati Uniti d’Europa. Per me è una scelta ancora più lampante perché tutte le volte che ho espresso un voto valido ho sempre votato i Radicali o i renziani.

Per questi motivi, oggi voterò Stati Uniti d’Europa, e scriverò sulla scheda i nomi di Matteo Renzi, di Lella Paita e di un amico di antichissima data, nonché collaboratore saltuario di questo giornale, Marco Taradash.

Nella speranza che, ritrovandosi alleati a Bruxelles e poi anche a Roma, si possa finalmente costruire l’alternativa al bipopulismo.

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